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IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

LA MUSICA INDIANA E LA CLASSICA OCCIDENTALE

Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo radunati dal grande genio ungherese, tra le prospettive delle tre vie di Tebe scompaiono le volute invisibile dei brani di Bach, Brahms, Mendelssohn e Schuman. 

Mi volto a osservare il pubblico, dalla prima fila in platea: sorrisi rapiti dalla gioia, sguardi assorti dall’incredibile tecnica e passionalità dell’esecuzione. Nessuno si annoia, tutti comprendono, con i sensi o con la mente, di essere di fronte a una serata memorabile, travolta da una cascata di applausi che implora i talenti di tornare sul palco, ripetere, bis!

La perfetta macchina musicale di Schiff riprende con un Lieder. Mi lascio accompagnare sulle note della fantasia tra i castelli in aria che la musica classica edifica nell’immaginazione. Sono tornato in Italia dopo molti mesi in India da solo due giorni e non riesco a evitare un continuo paragone tra la musica di quel Paese e queste composizioni classiche a me così familiari.

La prima notte della mia vita che ho dormito in India, nel 2008, fu proprio un brano di musica classica ascoltato in una stanzetta affittata a Mysore, nel Karnataka, a creare la colonna sonora di un trauma culturale sul quale dopo tanti anni ancora mi interrogo. «Tuba mirum spargens sonum/per sepulcra regionum/coget omens ante thronum.» Il solenne Tuba Mirum del Requiem di Mozart dice che la tromba, diffondendo un mirabile suono per i sepolcri del mondo, raduna tutti attorno al trono del giudizio universale. È un testo rappresentativo, un maestoso assolo di trombone che descrive il giorno del giudizio, quando «tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito.» Così la voce narrante del Tuba Mirum si chiede: «Che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?» 

Non seguivo il senso delle parole, in quella prima notte indiana, eppure era come se una mano invisibile fatta di note mi scavasse nel petto fino allo stomaco per strapparmi lentamente gli organi, fino alla gola, e uscire sotto forma di lacrime. In quelle note profonde, in quel racconto baritonale appoggiato sul suono della tromba, sentivo condensata tutta la profondità e l’autorità della cultura europea che mi pareva dileguarsi nell’oscurità di Mysore. Era come se sentissi che non avrei mai più rivisto nessuno degli amici, parenti e amori lasciati in Occidente. Una specie di morte del passato, di fronte a un futuro davvero indecifrabile in una terra molto aliena per me, quella notte. Un giorno del giudizio, come dicono le parole del Tuba Mirum. Come se la prospettiva su tutto ciò che rappresenta le mie radici, cioè l’Europa e un po’ l’America, il famigerato Occidente, sarebbe cambiata per sempre. L’importante, qui, è che fu proprio questo brano classico così narrativo a operare come simbolo di un’identità razionale ed espressiva, quella europea, appunto.

Anche le note estratte dall’aria dalle mani bianche di Sir András Schiff, mentre osservavo i virtuosismi della sua orchestra, si manifestavano come un codice che rappresenta perfettamente la cultura che le ha espresse. Rotelline di un orologio che oscillano con precisione al momento giusto. La scienza, la tecnologia, l’esecuzione perfetta di viola, violini, violoncello, trombone, corno francese, flauto classico e clarinetto, una sfida tra due pianoforti: tutti ingranaggi di una mentalità che trova il suo fulcro nell’organizzazione appassionata e smaniosa, nella capacità di costruire un congegno, in questo caso musicale, composto da note ben calibrate e dosate, suonate ad arte e all’unisono da esecutori quasi sempre impeccabili. Un sistema assoluto che riflette la razionalità, l’ingegneria e la meccanica su cui l’Occidente ha costruito una superiorità imposta con il colonialismo e di cui va ancora così orgoglioso. Musica classica come algoritmo, quindi, come programma di software.

So che è un errore della nostra era tecnologica tentare di spiegare tutto tramite gli ingranaggi dello strumento che più ha trasformato i nostri tempi, il computer. L’umanità è ben altro che una delle strutture che ha creato. Usare i transistor come uno specchio è la pigrizia dei limiti del contemporaneo. È stata invece la buona e vecchia musica classica, quella sera all’Olimpico di Vicenza, a rappresentare così bene tutto ciò che noi europei siamo stati e ancora siamo (anche se un collegamento tra spartito e software ovviamente c’è).

Come tanti borghesi europei del secolo scorso, sono cresciuto con l’idea che lo studio della musica classica rappresenti il minimo comune denominatore della cultura alta. Per la famiglia di commercianti di mia nonna paterna, emigrati in Italia dall’Impero austro-ungarico, lo studio della pittura a olio e del pianoforte rappresentavano un’evidente emancipazione, un’aspirazione verso un ruolo più rispettabile in un piccolo mondo antico. Nonna Marì, dopo undici anni di conservatorio, mi stiracchiava quindi i polpastrelli di scolaretto delle elementari con quello che all’epoca percepivo come un suo lieve sadismo. Stringendole con dolorosa foga, diceva che le dita dovevano colpire la tastiera del piano «come piccoli martelletti». Proprio come i martelletti che scoprii aprendo il coperchio del pianoforte. L’uomo che si fa strumento per suonarlo. Ecco di nuovo gli ingranaggi di una musica sublime che interpreta un ruolo sociale, per meritarsi il quale bisogna soffrire, indurire le proprie mollezze umanamente organiche, spaccandosi le labbra sul bocchino di una tromba, morsicando l’ancia di un clarinetto, o facendosi il callo alle dita sulle corde di un violino o di un violoncello prima ancora che su una chitarra. Per migliorarsi bisogna soffrire, ecco un altro valore occidentale implicito nella sua musica.

 Sul ruolo della musica classica come strumento di emancipazione sociale ragionava anche il Nobel per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee ricordando come fu rapito dal primo ascolto, lui appena 15enne, dei preludi e le fughe di Bach della raccolta Il clavicembalo ben temperato: «Mi chiesi se quella musica mi stava parlando attraverso i secoli o se invece stessi scegliendo simbolicamente l’alta cultura europea, cercando di impadronirmi dei codici di quella cultura come una strada che mi avrebbe emancipato dalla mia classe sociale in Sudafrica, bloccata in un cul-de-sac della Storia.» Musica come affinamento dell’anima, perché insegna a scrutarne i moti.

Nonostante le ambizioni della borghesia europea degli anni Ottanta si siano infrante in una democratizzazione dei gusti che approda oggi alla robotizzazione della voce umana, rappresentata dall’abuso dell’autotune negli hit più popolari del momento, la musica classica rappresenta ancora la spina dorsale di un’identità occidentale proprio grazie a un suo aspetto intensamente rappresentativo. Lo descrive benissimo il personaggio di Helen Schlegel in Casa Howard di Edward Morgan Forster ascoltando la quinta di Beethoven e vedendo «eroi e naufraghi nell’alluvione musicale.» Per lei, il compositore tedesco fa rinascere «le folate di splendore, eroismo, giovinezza e magnificenza della vita e la morte, e, tra grandi ruggiti di gioia sovraumana, porta la quinta sinfonia alla sua conclusione.» Non per niente si chiama la sinfonia del destino, Schicksals-Sinfonie. Che era anche il destino di Beethoven, quello di divenire sordo mentre la componeva, creando una musica i cui «raggi luminosi sparano nella notte profonda di questa regione, e ci rendiamo conto delle gigantesche ombre che ondeggiano avanti e indietro, avvicinandosi…» come scrisse E.T.A. Hoffmann sull’Allegemeine musikalische Zeitung dopo averla ascoltata per la prima volta.

Ammirando quindi il racconto epico di ciò che è l’Occidente, in quella serata memorabile al Teatro Olimpico di Vicenza, pensavo, in giustapposizione alla musica indiana, ai concerti di carnatica nel prestigioso festival di dicembre a Madras, ora nota come Chennai, alla dhrupad indostana dei fratelli Gundecha di Bhopal, amici ascoltati sia in India che a Sydney, in Australia, ad Amsterdam o in un concerto privato a Bassano del Grappa, e consideravo quanto queste interpretazioni siano legate all’improvvisazione, come il jazz o il blues, e al momento del giorno in cui vengono eseguite (i raga sono mattutini o notturni). 

La musica indiana e il canto di un raga, il cui ricordo si sovrapponeva come in una bizzarra sperimentazione fusion all’ascolto di Schumann eseguito alla perfezione, mi sembravano più ispirati all’idealizzazione di un lamento o di un grido di gioia, d’amore o di spontanea devozione per il divino: non rappresentano necessariamente un’emozione, ma usano quel lamento naturale per portare l’ascoltatore su un piano immediatamente astratto e mistico.

L’unica narrazione, anche se sarebbe più corretto parlare di direzione, è quella di un’unione con il Tutto. Lo condensa una lezione del toccante The Disciple, lungometraggio del giovane talento indiano Chaitanya Tamhane, in cui un’insegnante di raga spiega che «c’è un motivo per cui la musica classica indiana è considerata una ricerca eterna. Tramite il raga, scopriamo la strada verso il divino.» 

In un certo senso, la musica classica indiana nasce in modo più naturale, tramite la voce-lamento, ma approda rapidamente a un’astrazione spirituale. La musica indiana appare più legata al corpo umano e ai suoi impulsi, per approdare a un’elevazione ultraterrena. La “nostra” classica sembra invece nascere in modo più astratto, meccanico appunto, come acme di creatività che s’innalza sulla natura umana, rappresentazione sonora di un’idea che si trasforma però in emozione, esaltazione, ribollir di sentimenti, orgia di Sturm und Drang. E ciò accade forse proprio perché la musica classica occidentale si esprime come un ingranaggio astratto che addomestica il corpo agli ordini delle note scritte, melodie e armonie codificate dal software dello spartito dal quale è proibito discostarsi: è quindi più chiaramente matematica, meno impulso sensuale, una colonna sonora della razionalità. È troppo controllata.

Sull’eccessivo controllo della musica occidentale ragiona con maestria lo scrittore e musicista indiano Amit Chaudhuri nel suo illuminante Finding the raga: an improvisation on Indian music (Faber & Faber) ricordando come alcuni indiani reagivano al primo ascolto della musica classica. Sua madre, scrive Chaudhuri, udendo per la prima volta musica classica a Londra negli anni Cinquanta provò solo profonda tristezza. E il poeta Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel suo memoriale Jiban Smriti (I miei ricordi) racconta di due anni passati a Londra, tra il 1878 e il 1880 in cui la voce di una soprano gli ricordava quella di un cavallo che nitrisce, mentre il piano gli sembrò uno strumento inferiore perché non in grado di eseguire il glissando, cosa che riesce al violino che è quindi migliore, poiché più duttile alla personalizzazione del suono. Era una critica intrisa di rabbia anticoloniale, ma rifletteva una reazione spontanea alla “meccanicità” della musica classica che a noi riesce difficile percepire poiché ci siamo cresciuti dentro.

È proprio questa natura apertamente rappresentativa della musica classica occidentale a far sì, spiega Chaudhuri, che sia perfetta per il cinema e, successivamente, per l’avvilente abuso nei cartoni animati e nelle pubblicità che hanno trasformato i suoni sublimi di Beethoven, Mozart e Vivaldi nel kitsch, tramite la riproduzione eccessiva e fuori contesto di composizioni altissime, sprofondate oggi nei bassifondi rappresentativi. Suono e narrativa. Felicità e tristezza abilmente riprodotte con una musica che racchiude il trauma della modernità per la mente occidentale, persa nell’indagine della crisi della civiltà e del sé. 

Lo ammetteva anche il grande regista bengalese Satyajit Ray (famoso per la Trilogia di Apu) lamentando «l’assenza di una tradizione di narrativa drammatica nella musica indiana» ed elaborare poi che «le sinfonie di Beethoven parlano di fratellanza universale, la lotta dell’uomo contro il fato o le effusioni passionali di un’anima in pena. La sonata con i suoi soggetti maschili e femminili e il loro progredire intrecciato tramite drammatici cambiamenti chiave arrivano a un culmine… ma un raga è un raga.»

Ray si riferiva a un’inafferrabile alterità della musica indiana, un intrinseco e quasi indicibile misticismo immediato, fin dalle prime note, che indaga nella spiritualità, troppo spesso confusa, anche da generazioni di indiani occidentalizzati, con la religione. Per capire questa profondità bisogna rileggere Tagore che, in una lettera del 1894, racconta di una notte, su una casa galleggiante navigando sul fiume Shilaidaha, passata ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il silenzio dell’oscurità. In questa epistola, il poeta bengalese incapsula la dicotomia che mi si è rivelata, di ritorno dall’India, ascoltando la maestria di Sir András Schiff al Teatro Olimpico di Vicenza. 

Tagore riflette sulla ricerca di armonia della musica classica occidentale che vede come una musica diurna, contrapposta al mondo notturno della musica indiana: tenera, seria, pura rāginī, la melodia del raga. Entrambe ci smuovono, eppure sono opposte. Come l’idea della conquista del Paradiso tramite le buone azioni è contrapposta alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il circolo delle reincarnazioni e del gioco tra desiderio e sofferenza. «La nostra è una canzone di solitudine personale, quella dell’Europa canta invece l’accompagnamento sociale. La nostra musica porta l’ascoltatore fuori dai limiti delle vicissitudini quotidiane dell’umanità in quella terra solitaria della rinuncia che è alla radice dell’intero universo, mentre la musica europea danza in diversi modi attorno all’eterno saliscendi delle gioie e dei dolori dell’uomo.»

pubblicato su The Italian Review nel luglio del 2022

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L’intelligenza del bisogno: storie di indiani che conquistano i vertici globali

In questi ultimi dieci anni è difficile non essersi accorti della crescente presenza di persone di origine indiana ai vertici in diversi settori del mondo economico, culturale e scientifico nel mondo occidentale. Qual è la formula che fa sì che molte delle poltrone più alte, dei premi più prestigiosi e dei riconoscimenti più ambiti vengano conquistati da chi è nato in India?

Prima di tutto chiariamo che questa domanda non riguarda chi è nato in Occidente da genitori emigrati, come la vicepresidente americana Kamala Harris o il nuovo Surgeon General (una sorta di Ministro della Sanità operativo) nominato dal neo-presidente americano Joe Biden, il viceammiraglio Vivek Murthy.

Entrambi sono cittadini americani nati in America che hanno forse subito un influsso culturale indiano da parte di uno o due genitori o nonni di origini indiane, ma il cui carattere è stato coltivato nell’influsso della cultura anglo-americana, nelle scuole, licei e università. Sono cresciuti in un ambito che non è certo il “melting pot”, quel fittizio “minestrone” culturale che avrebbe dovuto miscelare tutte le culture degli immigrati, come si sosteneva in America il secolo scorso, ma piuttosto si sono formati entro i margini ristetti di un rigido “stampino per biscotti” che ritaglia fuori dall’ascesa sociale chiunque non adotti la cultura anglo-americana.

Se ti anglo-americanizzi, ce la fai, altrimenti resti fuori. Poco è rimasto della mentalità indiana nella vicepresidente Harris o nel viceammiraglio Murthy, come in tanti asiatici di seconda o terza generazione in America. Il richiamo alle origini, per queste persone, è fatto di gesti simbolici, folkloristici e culinari, che servono a raggrumare consensi nelle comunità degli emigrati.

Diverso forse il discorso del ruolo degli indiani in realtà non anglo-americane, ma per quanto riguarda Regno Unito e Stati Uniti l’anglo-americanizzazione è d’obbligo. O per nascita, come nei due casi, o per adattamento, come vedremo. È questo elemento, questa capacità di anglo-americanizzarsi, ciò che apre la strada ai posti di potere nelle multinazionali della globalizzazione.

Non ci occuperemo, qui, nemmeno dei Bollygarchi, gli oligarchi in stile Bollywood, i magnati indiani nati e rimasti in India, che costruiscono fortune da generazioni, come i Tata o gli Ambani, e nemmeno dei “Bad Boy Billionairs,” titolo di un documentario su miliardari che si sono costruiti fragili imperi dal nulla, come il guru degli schemi piramidali Saharashri; oVijay Mallya della Kingfisher Airlines, che invitava Enrique Iglesias a cantare al suo compleanno; oppure il gioielliere delle dive Nirav Modi; o il re dei computer Ramalinga Raju, i quali vedono poi crollare le loro cattedrali, dovendo spesso fuggire dall’India.

Qui ci occupiamo invece di quegli indiani nati in India, ma che hanno trovato un successo internazionale una volta emigrati all’estero. Secondo Fortune 500 addirittura il 30 per cento dei Ceo delle multinazionali sono di origini indiane. Sono tante le domande che spuntano studiando questa dinamica. Una, ad esempio, è questa: con così tante menti eccelse che trovano spazio nelle multinazionali, nelle università e nel mondo accademico e culturale, come mai, di pari passo con la crescita economica, in India non si è ancora riusciti a creare università come Harvard, Stanford, Oxford o la Columbia, oppure società come Google, Apple o Microsoft? Mentre cinesi e giapponesi sono gelosi della capacità di penetrazione degli indiani nelle multinazionali americane, non invidiano all’India l’incapacità, finora, di fare vera concorrenza con un telefonino, un computer o un’auto da esportazione made in India.

Per dipingere dei visi sull’argomento, facciamo qualche nome eccelso di indiani contemporanei nati in India che si sono meritati il successo nel mondo della cultura e della conoscenza: il notissimo Salman Rushdie e Arundhati Roy, romanzieri che hanno scritto libri resistenti al tempo; la regista Mira Nair; il premio Nobel per l’economia Amartya Sen; o intellettuali come Pankaj Mishra e Homi K. Bhabha. Ce ne sono molti altri, chiaramente. Ma se ci addentriamo invece nella selva degli amministratori delegati delle multinazionali che fanno girare il mondo, la percentuale di nomi indiani è davvero impressionante.

Ecco il catalogo di alcuni Chief Executive Officers indiani: Google, Sundar Pichai; Microsoft, Satya Narayana Nadella; Novartis, Vasant Narasimhan; Pepsi, Indra Nooyi; Mastercard, Ajaypal Sing Banga; Nokia, Rajeev Suri; Motorola, Sanjay Kumar Jha; Harman, Dinesh Paliwal; Adobe, Shantanu Narayen; Deloitte, Punit Renjen; Diageo, Ivan Manuel Menezes. L’elenco continua, ma per concisione ci fermiamo qui. La spiegazione del fenomeno non va ricercata in nessuna teoria sull’eccezionalismo indiano, su una presunta superiorità culturale nella formazione delle menti o addirittura nel Dna, o, come sostiene qualcuno, addirittura nella dieta a base di ural dal, lenticchie fermentate, degli indiani da esportazione.

Ci sono però una serie di fattori che portano a credere che esista una “via indiana” al successo globale. Il primo, più importante ed evidente, è la formazione scolastica. A partire dal 1847, la East India Company istituì quattro facoltà di ingegneria nel sub-continente con l’intento di fornire ingegneri civili per i lavori pubblici sotto la guida di docenti dell’esercito reale.

Questo connubio tra civili e militari è continuato per tutto il diciannovesimo secolo e oltre, fino all’istituzione, nel 1947, del Dipartimento dei Lavori Pubblici indiani che, pur trattandosi di un’organizzazione civile, si affidava ancora a ingegneri militari. Questo è un dettaglio importante per capire il tenore e l’ambiente dell’insegnamento di queste materie negli Istituti scientifici e tecnici indiani fino ai giorni nostri, e cioè la matrice militare: ovvero, severità e rigore al servizio di scienza e tecnica. E viceversa.

Di pari passo, filantropi come Jamshetji Tata finanziavano l’Istituto Indiano della Scienza già dal 1909, così negli anni Trenta esistevano già 10 istituti che offrivano corsi di ingegneria. Con la Seconda Guerra mondiale, nel 1939 ebbe inizio il “Regime di addestramento di tecnici di guerra”, ponendo le fondamenta della moderna educazione tecnico-scientifica in India.

Capire questo forse tedioso background storico è importante per comprendere lo spirito e l’orgoglio nazionale nei confronti della formazione tecnico-scientifica in India, nazione dove, fin da piccoli, la maggior parte degli indiani si sentono ripetere che gli unici studi degni di tale nome sono gli S.T.E.M., cioè Scienza, Tecnologia, Ingegneria (Engineering in inglese) e Matematica. Umanismo, forget it!

Le cattedrali di questa religione laica, cioè il credo nella superiorità della scienza e della tecnica su tutte le altre facoltà, sono i 23 istituti di tecnologia sparsi in tutto il paese. Qui è dove milioni di indiani sognano che i propri figli possano laurearsi per ottenere la chiave verso l’emancipazione dalla povertà o da una classe sociale dalla quale si vuole elevarsi. Fu la Legge degli Istituti di Tecnologia del 1961 a dichiararli in pompa magna “Istituti di Importanza Nazionale,” delineandone poteri, doveri e infrastrutture governative. Ogni “I.I.T.”, come vengono chiamati più comunemente (Indian Institutes of Technology) è autonomo, ma legato agli altri tramite un Consiglio che li amministra e che risponde ovviamente al ministro dell’Istruzione.

Uno dei più importanti tra questi è quello di Chennai, nei cui prati brucano liberi e intonsi molti cervi maculati, nel cuore di un’area metropolitana di otto milioni di abitanti. Il rettore dell’ITT Madras,  Bhaskar Ramamurthi spiega che questi istituti nacquero negli anni cinquanta sul modello del Massachusetts Institute of Technology di Boston e su quello di Cambridge, con standard molto alti e con professori laureati in quegli atenei americani e inglesi. “Ancora prima di aver completato gli studi, i nostri laureandi vengono già reclutati da Google, Facebook e dalle grandi banche internazionali.

La facoltà più competitiva e popolare? Informatica.” Generazioni sempre più numerose di ingegneri e matematici vanno quindi formandosi fin dagli anni cinquanta, ed è in questi istituti o università simili che hanno iniziato a studiare, o sotto questo influsso, nei licei, gran parte degli amministratori indiani ora alla conquista del mondo delle multinazionali.

La scienza viene vissuta quasi come credo religioso, quindi, e proprio in quella che Giorgio Manganelli chiamava la “casa madre dell’Assoluto,” ovvero il quartier generale della Spiritualità. A sentire i revisionisti storici, fu in India che si sviluppò l’atomismo nel sesto secolo prima di cristo. Già dal nono secolo d.C. gli indiani usavano lo zero, ben prima che in Medio Oriente. E c’è chi sostiene che è grazie alla natura metafisica della filosofia vedica e induista, in confronto a quelle giudaico-cristiane, che è stato possibile immaginare il nulla, ovvero lo zero, proprio in India.

Anche le funzioni trigonometriche del sine e del cosine furono utilizzate dagli indiani fin dal quinto secolo d.C., così come il sistema decimale si sviluppò qui nel nono secolo d.C. Dire che il “saper far di conto” gli indiani “ce l’hanno nel sangue” sarebbe non solo sciocco, e ovviamente anche una dichiarazione razzista, ma si può dire che da sempre, tra alti e bassi della storia indiana, tra imperialismi musulmani, buddisti, induisti e britannici, una costante scientifica c’è sempre stata.

È in questo humus che germoglia la cultura dei boss indiani della finanza e dell’economia. Ma è anche un contesto che notoriamente soffoca gli impulsi creativi, perché spinge gli studenti ad accumulare nozionismi su nozionismi senza accompagnarli verso una mentalità capace di trovare soluzioni alternative, trovare un collegamento nei punti sul foglio uscendo dagli invisibili schemi mentali costruiti con troppa mentalità ingegneristica.

Questo è il punto debole della formazione strettamente tecnico-scientifica. Ma questo limite si dissolve quando il soggetto emigra e si trova in un contesto industriale, come quello occidentale, dove la creatività è un bene primario, perché trovare soluzioni innovative è fonte di lucro.

È nelle grandi università della Ivy League americana o di Oxbridge (Oxford-Cambridge) che si impara a sfoderare le proprie idee, le proprie opinioni e il contesto dove si apprende a osare, rischiare e pensare “oltre”. Ecco allora una prima miscela potente nella “pozione magica” dei supermanager indiani. Fondamenta scientifiche solidissime in India e libertà di esprimere la propria creatività nel nuovo contesto occidentale.

Subentrano però altri elementi importanti. Il più evidente, e che fornisce una carta ancora imbattibile in confronto ai colleghi nati in Cina o in Giappone, è l’inglese. In molti licei in India, soprattutto nelle grandi metropoli, l’inglese è lingua primaria, oggi sempre più affiancata dall’hindi, grazie alle mire nazionaliste del partito fondamentalista indù al governo che spera di fare dell’hindi la lingua nazionale, battaglia molti difficile negli Stati del Sud legati fortemente alle loro lingue locali, come il Malayalam in Kerala, il Kannada nel Karnataka e l’antichissimo Tamil nel Tamil Nadu. Ma il fatto che il retaggio linguistico degli imperialisti britannici abbia lasciato un regalo utile nel mondo della globalizzazione non sfugge a nessuno. Non solo negli affollati call center di Bangalore, ora indeboliti dalla concorrenza delle Filippine, ma in generale in ogni ambito professionale. Avere l’inglese se non come lingua madre come lingua molto presente nella cultura indiana ha aiutato moltissimo nell’integrazione immediata degli indiani nei contesti anglo-americani.

Qui bisogna fare un importante distinguo all’interno della cultura anglo-americana. Fino agli anni Settanta, per un ambizioso manager o imprenditore indiano di famiglia facoltosa era importantissimo accedere ai prestigiosi atenei inglesi, ma dagli anni Ottanta in poi sempre più studenti nati in India si sono rivolti all’America, che aveva le porte più aperte e che stava imponendo in maniera sempre più pervasiva il proprio modello culturale nel mondo. Invece di guardare verso Londra, gli indiani hanno iniziato a mandare i figli in carriera nelle grandi università della California e della East Coast, da Berkley e Stanford fino all’MIT e a Harvard. Che sia parte del manifesto delineato da Walter Rostov per la modernizzazione, ma in realtà americanizzazione del mondo non-occidentale è possibile.

Di certo l’importanza strategica di studiare in America era nutrita dalla tendenza a credere che il mondo non ha altra opzione oltre a quella di convergere su quello che veniva sbandierato come un modello economico e politico superiore guidato dalle nazioni anglofone, gli Usa e il Regno Unito. Come disse Thomas Friedman senza peli sulla lingua “Voglio che tutti diventino americani.” E in un certo senso così è stato.

Cosa è successo? Come mai il modello di resistenza postcoloniale socialista e non-allineato indiano si è slabbrato, andando lentamente sfarinandosi e lasciando crescere sul terreno un filoamericanismo sfrenato il cui obiettivo principale era di riuscire ad entrare in quella potente rete di università Ivy League, think tanks, fondazioni, festival, riviste influenti, e multinazionali potentissime? Come nel resto del mondo, l’indebolimento, prima, e il crollo, poi, del blocco sovietico coadiuvato dall’impoverimento economico indiano ha spinto verso quella speranza a stelle e strisce, soddisfatta in una prima fase dalla crescita della classe media nella fase “New India” nei primi anni di questo nuovo secolo.

Qui subentrano anche gli stipendi. Ed ecco spiegato perché il fatto che il 30 per cento dei Ceo delle multinazionali siano indiani in realtà è un dato che si ritorce contro l’India contemporanea. Come mai, nonostante tutte queste competenze, tante conoscenze e illustri talenti non beneficiano l’India? Cinesi e giapponesi pagano stipendi ai loro alti dirigenti che sono paragonabili a quelli americani. Quelli indiani, in rupie, sono la metà di quelli cinesi e americani. Quindi studiare in America apre le porte a stipendi seri, non come quelli che un alto dirigente può aspettarsi in India.

Oltre all’americanismo che ha spinto i giovani più promettenti a studiare in America e a trovare tramite gli atenei un inserimento nella realtà “corporate,” spuntano anche elementi culturali, legati alla realtà contemporanea dell’India. Si nota infatti che una delle qualità che accomuna gli amministratori delegati indiani delle grandi multinazionali, contrariamente ai loro colleghi occidentali, è la straordinaria perseveranza e pazienza.

Satya Nadella è rimasto fedelmente per venti anni a Microsoft prima di diventarne Chief Executive Office. Sundar Pichai lavora a Google dal 2004. Indra Nooyi è alla Pepsi addirittura dal 1994. Jain, Menezes, Narayan sono rimasti  almeno dieci anni nelle stesse società, prima di arrivare alla barra di comando. Invece di accettare una delle molteplici offerte che pagavano di più, di lasciarsi sedurre da un concorrente con stock options, stipendi e bonus sempre più alti, gli indiani sono rimasti fedeli alla “famiglia”, altro concetto importante nella mentalità del leader imprenditoriale indiano. Quindi si parla di fedeltà, basata sulla perseveranza, che viene premiata.

Per conquistare questo livello di perseveranza ci vuole visionarietà, la capacità di vedere le cose come saranno tra dieci o vent’anni. Non solo la fantasia, la creatività, ma anche la focalizzazione sulle strategie a lungo termine. Uno strumento utile per pianificare la propria carriera, ma anche per pianificare la crescita di un’azienda, evidentemente. La capacità di sognare, di credere nell’impossibile, rimuovendo uno alla volta gli ostacoli creati dall’improbabile.

Per avere perseveranza ci vuole pazienza. E la pazienza è una lezione che chiunque passi qualche anno in India, immaginiamoci poi i primi anni formativi, è costretto a imparare. Inutile negare che vivere in India presenta molte difficoltà. Una scuola perfetta per nutrire perseveranza e pazienza. Il sistema è talmente complesso e competitivo, a causa dell’affollamento demografico, ma anche della cultura di dilagante corruttela e familismo amorale, nepotismo e favoritismi, che senza una sacra pazienza non ci si può far strada. Fin da ragazzi, fin dalle medie e dall’età del liceo. Sembra controintuitivo, perché occasioni per irritarsi ce ne possono essere a ogni angolo. Ed è questo il punto, sono talmente tante che se si perde il controllo non si riesce ad esistere in maniera funzionale. Qui perdere le staffe è controproducente. Se lo può permettere episodicamente forse solo un occidentale sprovveduto o un ricco sfondato. Ma per chi sta cercando di scalare la lunga ascesa di una vita di affari, paga essere pazienti e tolleranti. Altre grande qualità necessaria a un leader d’impresa contemporaneo.

Un’altra caratteristica che si riconosce ai leader indiani è l’umiltà nel lavoro. Nonostante la cultura di provenienza sia pervasa da un sistema di caste perfettamente riprodotto nelle comunità di immigrati in Occidente, con le precise divisioni ben rispettate, una volta integrati nel contesto di un’azienda straniera subentra invece l’umiltà dell’amministratore indiano di sapersi rimboccare le maniche e mettersi a lavorare accanto ai dipendenti. All’americana, appunto. L’umiltà nel lavoro apre le porte alla meritocrazia, che fatica a crescere in India, ma che, nel contesto americano, viene da incoraggiata. Umiltà tra capi e sottoposti e meritocrazia sono fenomeni che accadono più raramente in India, dove il rispetto dei ruoli esige che ognuno esegua il proprio compito e nessuno si sporchi le mani in ciò che non è il suo “dharma,” il suo dovere voluto dal fato. E dove impera un nepotismo simile a quello italiano. Ma è qui che l’adattabilità della cultura dell’emigrante indiano entra in gioco. La capacità di comprendere rapidamente il contesto americano e di adattarvisi, di rientrare rapidamente nello “stampino per biscotti” culturale. Si mantengono quindi le utili qualità della provenienza, adottando invece le tendenze e attitudini più utili nel contesto della cultura “ospite”.

Per arrivare a ciò, è necessaria una bella dose di flessibilità, altra qualità che accomuna i leader d’impresa indiani. La capacità di accettare il cambiamento e l’incertezza, altra caratteristica indispensabile per sopravvivere in India. Ma di pari passo alla flessibilità e all’umiltà si arriva anche a un’idea del luogo di lavoro come una famiglia. Questa è naturalmente una tecnica manipolatoria usata da tantissime aziende, quella di creare un senso di appartenenza familiare patriarcale o matriarcale in cui tutti sono protetti e lavorano in gran sintonia. Spesso è solo uno strumento per incrementare la produttività a scapito dei compensi, ma nel caso di molti amministratori delegati indiani si tratta di concepire il proprio lavoro come la propria famiglia, senza divisioni nette. Quindi fare le feste con i colleghi viene normale e spontaneo, i colleghi sono la famiglia, soprattutto se sono dei sottoposti.

E c’è poi il famoso senso del tempo indiano. Si dice che in India si comprende come la gente possa percepire lo scorrere del tempo come un fenomeno circolare e non lineare. Il tempo è d’oro, ma anche infinito. E in India si è costretti, sempre per il contesto non sempre fluido dell’efficienza industriale, a capire che il tempo non funziona in maniera dicotomica: tempo di lavorare e tempo di vivere.

È così che in Occidente si suddivide spesso la percezione dello scorrere delle giornate. Una sequenza di eventi che scorrono. In India, il senso di passato, presente e futuro che agiscono in correlazione è più evidente. Che sia per il palpabile senso delle tradizioni, che in luoghi come Chennai si osserva nel modo in cui si vestono ancora gran parte dei cittadini, con sari per le donne e lungi (pronunciato lunghi, sottane di cotone per uomini), con le file di devoti di fronte ai templi per offrire noci di cocco e fiori alle divinità o perché nulla sembra accadere in orario, tant’è che questa lezione la si impara.

Lo stesso Nadella di Microsoft lo ha riassunto, parlando all’Australian Financial Review descrivendo il suo concetto di equilibrio: “Ciò che cerco di fare nel mio lavoro e di armonizzare ciò a cui tengo profondamente, i miei interessi più profondi, con il mio lavoro. Per me il mio lavoro a Microsoft è una piattaforma che mi consente di coltivare le mie passioni. E ciò mi dà molto senso della vita. E questo, per me, è la forma più alta di relax.” Altro che giocare a golf.

Quale carburante nutre questo genere di personalità? Il bisogno, la necessità e spesso la vera e propria povertà. E quindi il sogno del riscatto, proprio come, in chiave globale, avvenne in Italia nel secondo dopoguerra dove le colonne della rinascita della Milano produttiva erano in maggioranza uomini del sud, guidati dai banchieri Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia. Così, i poveri ragazzi delle metropoli più misere, quelli del Sud Globale, quelli che hanno fatto fatica, sono arrivati con tanta fame di lavoro e di successo nella capitale del potere mondiale. E hanno preso d’assalto il castello. Vincendo. L’intelligenza che nasce dal bisogno.

Lo riassume bene, confermano molti punti di questa lunga analisi sul successo degli indiani nel mondo occidentale, un commento di Sundar Pichai (nato nel 1972) in un’intervista alla Cnn, in cui descrive quell’India in ritardo sul progresso dove sono cresciuti gran parte dei suoi coetanei, di cui si è parlato qui. Nell’ultima frase, rivela, infine, un’ulteriore arma segreta di molti indiani “da esportazione” di successo: “Non pensavo assolutamente che sarei diventato amministratore delegato di Google. Ero troppo occupato a costruire prodotti, che è quello che mi piace fare. Fare prodotti. Sono cresciuto a Chennai quando non c’erano ancora computer, televisioni o Internet.

Il tempo si passava con gli amici, facendo sport o leggendo. Se volevi una linea telefonica, potevi aspettare anche fino a cinque anni, prima che te l’istallassero. C’era solo un telefono per ogni strada. Così l’intera comunità faceva la fila per poter chiamare i parenti da quell’unico telefono. Ho visto il mio primo computer a scuola. Eravamo poveri. Quando arrivava la siccità, i camion dell’acqua ci portavano una decina di litri d’acqua a famiglia. Mia madre si è sacrificata e ha lasciato le scuole superiori per far studiare i maschi della famiglia. Ma ha sempre dato un valore importante all’educazione e alla lettura. Sapeva che la conoscenza e la curiosità erano uno dei valori più importanti della vita. E devo anche a lei il fatto di essere arrivato qui.”

Pubblicato so “Che Fare” 16 dicembre 2020

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Come home to the Coromandel (author profile)

Journalist-writer Carlo Pizzati on his memoir Mappillai — An Italian son-in-law in India , his work around the globe and how he came to love and live in a fishing village south of Chennai

10MPCarlo-PizzG4L4Q7EP03jpgjpg.jpgWhen we meet at the house with the green gate, Carlo Pizzati, 52, has just arrived from a refreshing walk at Kalakshetra, showered both by rain and tree jasmine. He sportingly decides to don a blazer for the photographer despite the sweat maps it leaves on him. Ten years ago, on his first visit to Chennai, Carlo almost decided he couldn’t allow himself to fall in love with the woman he had just set eyes on because he found the humidity sapping. Four years after he married poet-journalist-dancer Tishani Doshi he seems to have found his pace with the city’s weather and its people. Home is Arlanymôr (Welsh for ‘beside the sea)’, a salmon-pink villa with teal windows and a blue gate, at the fishing village of Paramankeni, over 90 kilometres south of the city.

Their life here — distributed among toads croaking behind the ancient family porcelain that has survived the voyage from Italy to India (“a piece of the Old Continent brought to the even Older Continent”); snakes that charm their way to the kitchen coffee station; a dog named after a character from Jungle Book ; a mouse that has survived several spins in the washing machine; navigating the red tapeism of Indian bureaucracy; locals who call him mapillai (son-in-law) when they see him walk the beach in his lungi ; and slaving away at writing desks despite the siren call of the sea — forms much of the lyrical, stream-of-consciousness narrative of Carlo’s memoir Mappillai – An Italian son-in-law in India (Simon & Schuster India).

“The book was a decade in the making, and took a year-and-a-half to write,” says Carlo. “There is a lot of race identity in it, about the India I first encountered and the India I see now. It is the journey of 10 years of a white European in this country who becomes a local without having to go native.”

Although Mapillai has some threads in common with Carlo’s previous bookEdge of An Era that explores geopolitics from the perspective of an European who grew up in the shadow of the Berlin Wall, it is more a sequel to “my other book, Technoshamans , a journal of a journey around the world that ended in India”, and introduced him to Indian spiritualism and Ashtanga yoga.

Let’s go exploring

At the age of 16, Carlo left his hometown north of Venice and went to Pensacola, Florida, as an exchange student. “I lived in the US for 11 years supporting myself through American University and Columbia. Those years babysitting boys with snakes, being a pool lifeguard, sports editor of the college newspaper, and doing carpentry were unusual growing-up experiences for someone from a middle-class European family, although it was a rite of passage for most Americans,” says Carlo, his eyes crinkling with laughter.

Adventure is a word that suffers from overuse, but that can be forgiven in relation to Carlo who struck luck when he started working for the Italian national daily la Repubblica corresponding from New York, Central and South America and Europe. It opened doors for him to cover the Northern Ireland strife, drugs in the Andes, civil rights battle in Chile, immigrant smuggling in Mexico, environment in Mururoa atoll and the GMO war in Europe and the US. “Those were the roaring years of enjoying New York but working hard as well. It made my writing eclectic, led me to make a feature film, be a political talk show host and teach at Asian College of Journalism. It’s probably easier to obtain success in one field by focussing, but I’ve been keen on having an interesting life,” he says, adding that some experiences like meeting a 16-year-old guerrilla in the jungles of Colombia taught him empathy. “She was more interesting than presidents who exude more power, although I got arrested on my way back.”

Does Paramankeni allow for this urgent, rock n’ roll journalism? “Stepping away has been a kind of evolution. The adrenaline-seeking personality I had is still there. I recently reported on love commandos in Delhi, following them to their secret hideout. Paramankeni is not retirement but more a writer’s colony that gives me the space for intimate storytelling. We are the sum of the experiences we have had. I don’t want to be stuck with an idea of myself.”

Is the real Carlo then the man who wrote a memoir that is a love song to his lucky wife? “Oh no, I’m the lucky one,” laughs the mapillai .

by Deepa Alexander

portrait photo by R. Ravindran

The book will be launched on October 11, 7 pm at Goethe Institut Auditorium. The author will be in conversation with Tishani Doshi. The event, hosted by Goethe Institut and Prakriti Foundation is open to all. For details, call 28331645.

 

This profile was originally published in The Hindu newspaper Oct. 10th, 2018 at this link.

Carlo Pizzati confronts the challenges of writing an ‘India book’ in his memoir ‘Mappillai’ (Mint Lounge)

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For centuries, travellers from the West have written tomes about India—but no one’s had the last word

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Oh, no,’ my wife says, ‘you are NOT going to write an India book, are you?’

‘No, I’m not, I promise.’

This book will not attempt to explain something that cannot be dissected, as it is ever changing.

There are so many Indias. There’s a tangible, smellable, real India. There’s an imaginary, literary, dreamed India.

Writing about India is like writing about the mafia. It’s like owning a pharmacy. Everyone is bound to always get sick, there’ll always be a need for medicines. A never-ending, lucrative business.

Whether you want to find out about India’s Maximum City, its White Tigers, its Slum-dog Millionaires, its Cities of Joy, or whether India is calling or coming or becoming, whether you want to know about its makers, its prisons or its 50 incarnations or its nine lives, India is there to be told. To be explained and often mansplained.

Not here, not in these pages. Nope. Here you’ll have to read about simple, real, one-sided, totally biased and culturally slanted personal anecdotes and opinions from a recovering Orientalist.

But, think about it, hasn’t this really been the fate of all the people who’ve come for religion or to conquer or for love and have been captivated?…

I guess it all started with the historian Megasthenes, the first foreigner from the West who wrote about India. He left Greece around 300 BC and, after crossing Anatolia and Mesopotamia, finally reached Lahore and then Allahabad. The first whitey or gora, as they’re called in Hindi, to tell his side of the story about India and Indians.

Diodorus, Strabo, Pliny and Adrian all plagiarized from his Indica (not just a type of cannabis, but also the title of Megasthenes’ book). He mixed local legends with personal tales. (…)

This excerpt of my memoir “Mappillai” Simon & Schuster continues at this link in “Mint Lounge”.

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Social media as virtual temple

by Carlo Pizzati

Is the rapidly rising trend of talking to the dead online the millennial way of seeing the Internet as god?

There are at least 30 million dead people on Facebook right now. Every day, 8,000 Facebook members die. By 2060, there could be more deceased people on Facebook than those who are alive. By then, we may be communicating in completely new ways and social networks might exist only as anachronistic testaments of a bygone technological phase — a digital graveyard of a forgotten past.

As we head into this possible future, it’s evident that a growing number of people are already talking to the dead on social media. And the way in which they communicate with the deceased is altering how we relate to the ideas of loss of our loved ones and to the idea of an afterlife. More importantly, this behaviour increasingly identifies the Internet with the notion of what is divine, sacred and holy.

This phenomenon re-emerged distinctly with the recent deaths of writer V.S. Naipaul and singer Aretha Franklin. Hundreds of authors, intellectuals and admirers gushed their grief all over their timelines, invoking the great lessons of the master and the powerful voice of the singer, often addressing the deceased stars in the second person. “You who taught us so much…”, “You who sang so heavenly…”, and so on.

It’s nothing more than an understandable variation of public mourning, one might say. But there are more serious implications in this common behaviour.16SM-P1-CARLOGTR4M2II61jpgjpg.jpg

The necromancers

Talking to the dead must have been a strong need since the early days of humanity. According to psychologist Julian Jaynes, the very first concept of god originated when an ancient tribe began to worship the decaying corpses of a king and queen. The royals were buried in their hut, sitting upright as they decomposed. At some point, someone heard their voices still imparting orders from a great beyond. And began to worship the inanimate bodies as deities.

All religions, to varying degrees, claim different ways of communicating with the afterlife. Orpheus is always descending into some inferno; Lila is always hoping to be reunited with her dead king, as narrated by Vasishta.

This may be motivated by the need to express love, or the attempt to accept loss. To varying degrees of gullibility or believability, through the centuries, clairvoyants, necromancers, channellers, diviners, crystal gazers and mediums with Ouija boards on seances have offered promises of connectivity.

The industrial revolution brought innovative technologies and new methods to supposedly communicate with the alleged souls of the departed. In the post-WWII period, spiritualists across Europe thought they heard “psychophonic” voices of the dead emerging from radio waves.

Today, in our relationship with the inexplicable, we witness a mixture of events on social media. There is the comprehensible attempt to keep the idea of the deceased person alive, reaffirming a spiritual belief in the existence of an afterlife. And the need to reawaken a functioning mourning ritual, lost with modernisation.

However, it is one thing to share admiration for dead artists, scientists and leaders, and another to inadvertently equate the Internet with the sacred enclosure of the temple, the traditional location for our dialogue with the invisible.

The annus horribilis that brought this phenomenon to the foreground is undoubtedly 2016. David Bowie, Prince, Muhammad Ali, Fidel Castro, Umberto Eco, Jayalalithaa, Harper Lee, George Michael, Elie Wiesel, Leonard Cohen, Carrie Fisher, Katherine Dunn, Gene Wilder — these disappearances unleashed waves of comments that allowed people to externalise the public discourse on death. #RIP, which can be interpreted as the classical ‘Rest in Peace’ or the more likely ‘Rest in Pixels’, reached record levels.

The Internet has clearly changed the way we relate to celebrities. It has also changed how we talk about them after they’re gone. In turn, this has affected how we talk about our own dead. People now readily externalise what is called “competitive mourning,” a race of comments like “only the good die young,” “I knew her so well,” and similar banalities.

Elaine Kasket (real name, nomen omen ) is a psychologist at Regent’s University London, currently on sabbatical to finish writing All the Ghosts in the Machine: How the Digital Age is Transforming Death in the 21st Century . She’s been trying to determine if it is healthy to talk to dead people online. “For digital natives born after the mid-80s,” she writes, “to put something on the Internet is to trust it will be received by someone, somewhere in the ether.”

Kasket says that since Facebook is a place many associate with their loved ones, after their departure “it’s natural to reach out to them in the same ‘place’ where you interacted, talked and joked,” when they were alive. The issue, the psychologist points out, is that online, the problem of “legacy hierarchy,” meaning who is entitled to represent the deceased, who can decide how they are remembered, who has “chief mourner status,” becomes a public problem.

Which is also why removing the social network profile of a deceased can be publicly traumatising. Basically, Kasket affirms, keeping a dead person’s profile online is the equivalent of preserving a bedroom, continuing to lay a place at the dinner table for someone who will never show up again. But posting on their Facebook wall has a twist: this was the place where often you had the most interactions with the deceased person, so the expectation of an impossible reply can be higher.

Pixellating death

How does this affect our integration of spirituality within our daily use of technology? We can assume it enhances it. However, there is a fundamental difference between talking to the dead in your own head (or out loud in the silence of your room) and posting your dialogue on a public platform, such as Facebook, Twitter or Instagram.

Virtualising the experience of our loved ones, while they are still alive, and getting accustomed to mistaking their pixellated avatar for our tangible reality, makes us want to hang on more to their Internet version, allowing us to continue experiencing a form of mediated presence.

A compulsive behaviour that has been observed in mourners is that of repeatedly returning to visit the page of a departed loved one. It is equivalent, in a previous technological phase, to calling an answering machine in order to hear the voice of someone who died — initially useful, yet if repeated it might slow down the process of mourning.

There’s also the problem of self-censorship while posting online. As Sherry Turkle, MIT professor and author of Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other , has explained: “We have come to believe that our experiences are not validated unless we have shared them. What we do online tends to make us look good. When we attempt to grieve or commemorate a lost loved one in a public forum, we censor what we want and need to say. We lose certain ways of talking, experiencing things because we don’t practise them.”

For example, we may need to insult, in our own internal dialogue, a friend or relative who died. It might be exactly what’s needed to gain closure and face grief. But most of us would not do that online.

Onscreen temple

If the Internet is being associated with a virtual temple, a sacred place of dialogue with the invisible, what are the implications on atheist and agnostic minds who may be engaging in spiritual behaviour without realising it? Or on believers who are beginning to divert their focus of worship from a real church or temple to a screen? In other words, is the Internet becoming the new temple for many millennials and Generation X web surfers?

If you listen to musician Alexander Bard (again, nomen omen ), the answer would be “yes.” Six years ago, this Internet activist became a spiritual leader by founding a new religion claiming that “the Internet is God”. He called it Syntheism.

The word means “together with god,” to indicate that humanity creates god as opposed to god creating humanity.

Of course, at the moment, Syntheism seems more of an artistic provocation rather than a real religion. Yet, Bard might have a point when he says: “I firmly believe Syntheism is already being practised — we are just formulating it.”

And, of course, Syntheism already has serious competition in the ‘Church of Google’, a website first taken down, but revived as ‘The Reformed Church of Google’ — their belief is that the search engine is the closest thing to god because it is omni-present, omniscient, omni-benevolent, as it professes (officially) no evil.

Artificial nirvana

These trends, some facetious, some more serious, are not alone. Extropians are a group of young scientists, looking at technological promises made by the pioneers of artificial intelligence like Marvin Minsky, or of nanotechnology like K. Eric Drexler, who predict a world where both body and mind will become obsolete, and where a combination of technologies and genetic engineering could lead to our capacity to download our conscience in a web server and reach artificial nirvana in a new post-human world.

It’s a popular trend in Silicon Valley, with its promises of doubling life spans with special diets or deep-freezing bodies with cryogenics. It is, more than science, a new form of utopian religion looking at a trans-human who can control nature and the universe.

Some traditional religions see this as the antichrist, or a Satanic endeavour to end humanity. Optimists see the birth of a connected world-brain through artificial intelligence as the realisation of what philosopher Hegel had predicted about society as a whole.

Computer as god

All traditional symbology is in place to understand why it is possible to experience technological communication in spiritual terms. Biblical Armageddon, or the “Technocalypse,” is envisioned as a sizeable solar flare that could wipe out all the hard drives in the world. The Dark Net is a metaphor of a hell ruled by a concealed, immoral, and murderous underworld. The Heavens could be the download of our conscience in a server, resulting in eternal body-less nirvana.

As with life itself, most people experience electronic networks as entities evolving from a force they do not really understand, and that certainly they cannot control — a self-organised, decentralised and distributed system, which is also how many experience the concept of the divine.

To allow the identification of a faceless abstraction like the Internet with an all-powerful god-like force, there’s also the fact that the traditional monotheistic idea of god in a human form, often that of an older, wise man, has been suffering a slow erosion.

In the West, there has been a crisis of the patriarchal symbology of god in the aftermath of the bloody World Wars of the 20th century which involved (negative) father figures like Hitler, Mussolini or Stalin, along with positive (for some) father figures like Woodrow Wilson or the Kennedys. Of course, the need for an older man with a white beard sitting on the highest throne of the land lives on in a place like India, for example. But the iconography of patriarchy is suffering as the interdependence of humanity with the natural world brings everything on a similar level.

The more we use the Internet, the more we experience existence as an interconnected network of dependencies, leading to a possible weakening for the need of traditional religious symbols.

This could mean a return to an animistic approach, as is the case with some New Age beliefs in which mountains, rivers and oceans, along with plants and animals, are seen not as objects and lives created by god, but as an integral part of a larger interconnected whole, components of a web of creation.

People of the PC

In an era of democracy, the hierarchical structure of some theological liturgies might suffer, as believers feel equally important in the face of the divine, just as they are in the face of Internet. It is not so far-fetched to see that, in our age, a God-like presence could be perceived in the network which connects us more frequently and deeply every day.

For centuries, monotheistic religions have identified themselves with a technological object which transmitted the religious experience far and wide thanks to a machine: the printing press.

Theology does come with technology. So it is not such a leap of faith, pardon the pun, to see that from “the people of the book,” we may soon be seeing the “people of the computer” becoming the strongest religion of the millenium, seeking salvation in the algorithm.

The writer is the author of Technoshamans. Mappillai,a memoir, will be published this month.

(Published in The Hindu Sunday Magazine September 16th,2 2018)

‘I hate the internet’ by Carlo Pizzati (from “The Hindu”‘s Literary Review)

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Ephemeral, jagged, tailored to the mind of a 15-year-old, is the digital network pushing humanity into cretinism?

Writing a good novel about the Internet is almost as difficult as shooting a good film about the effects of drugs. You may try all the available fireworks, and you’ll still fail. Blurred images, out-of-focus edges, tweaked sitar sounds, ridiculous echoes, and still you’ll get nothing close to representing the experience.

So far, defining the Internet with the language of literature has been as hard as explaining consciousness. Attempts to subsume the Internet into contemporary literature have been embarrassing. How can the instrument of knowledge understand itself? How can our own mind, slowly melting into a server where we store our photographs, memories, comments, emotions, chats, bank details, dreams and aspirations, understand its own technological nature? More importantly, how can a powerful instrument of meaning like literature be used to understand what seems to be its nemesis, the constantly distracting need for useless and disconnected novelties—the Internet of social networks?

One writer has succeeded in this mission, and in such a creative manner that, although everything indicated he would miss the mark, he triumphed. First of all, he wrote it on a computer. And he sees the contradiction: “Now writers used computers, which were the by-products of global capitalism’s uncanny ability to run the surplus population into perpetual servants. All of the world’s computers were built by slaves in China.”

Jarett Kobek, the author of I Hate the internet knows what he’s doing. And he tells you. In detail. It’s beyond meta-literature. It’s pure brilliance.

vinera wallWriting “a bad novel”

It’s hard to write about the Internet because it is so ephemeral. Harder still is it to have the guts to self-publish a novel built with the hyperbolic language of online interaction. And then to market it as “a bad novel” that promises to mimic the Internet “in its irrelevant and jagged presentation of content.”

Kobek delivers on the promise, because his style is a mix between a troll’s rant against Silicon Valley’s tech barons and the language of Wikipedia entries, which is actually inspired by Kurt Vonnegut’s Slaughterhouse 5.

I Hate the internet—A Useful Novel Against Men, Money, and the Filth of instagram, as the full title explains, has become an immediate sensation after an enthusiastic review in The New York Times. But it is a text that most publishing companies couldn’t print because of its candid attack on so much that Western society stands for. Including publishing companies. Funnily enough, success arrived thanks to the Internet. Kobek used his enemy’s weakness for the first successful pushback against the culture of Silicon Valley’s smiling billionaires—the perfect Judo move.

“Actually,” he admitted, “I could have called it I Hate Four Companies and Social Media. But that is such a bad title.” Indeed, the attack is not on the entire Internet, but mostly on its social media phase.

We knew about this

The damage to our privacy caused by the explosions of anonymous rage online has been diagnosed long ago. So don’t be surprised if the backbone of the plot of this book is simply the story, set in San Francisco in 2013, of 45-year-old Alina, a comic book artist, semi-famous in the 90s, who is ravaged by a Twitter storm.

It all happens because someone posts a YouTube video where Alina dares to publicly say that singer Beyonce has done nothing for social progress. The fans’ attack is vicious and life-changing for Alina and her friends.

The plot’s kernel is something you can find in TV series like ‘Black Mirror’ and ‘Mr. Robot’, or in the sit-com ‘Silicon Valley’, which mocks Internet moguls who constantly promise “to make the world a better place.” But in this book, as the narrator warns us, “the plot, like life, resolves into nothing and features emotional suffering without meaning.”

CONTINUED IN “THE HINDU”‘s WEB SITE, CLICK HERE.

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Carlo Pizzati torna a Criminàl, sulle tracce delle Anguane

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In occasione dell’uscita della nuova edizione digitale del romanzo “Criminàl”, Carlo Pizzati, che attualmente vive in India, è tornato alle origini.

E’ tornato nei luoghi che la mappa “Transpadana Venetorum Ditio” conservata nei Musei Vaticani definisce con il nome Criminàl. 

Ma questa volta Pizzati non è tornato con l’intento di continuare la ricerca su quella parola della mappa dei Musei Vaticani.

E’ tornato a riscoprire dei luoghi mitologici, è tornato sulle tracce delle anguane. Infatti “c’è chi sostiene che vivano ancora, in quel che resta dei boschi della Valle dell’Agno e in molte altre foreste delle Alpi e Prealpi. Le anguane non erano, ma sono, dicono alcuni”.

E in quei boschi forse Pizzati stavolta le ha trovate davvero come potete vedere nel video qui sotto, trailer di due cortometraggi di 10 minuti ciascuno tratti dal capitolo “La notte dell’anguana”:

Le anguane, insieme al paesaggio delle Piccole Dolomiti e della piovosa Valdagno sono l’ambientazione immanente in cui nasce Criminàl. Rispetto alla prima edizione, in questa Extended Edition trovano spazio alcune fotografie inedite, degli “appunti” speciali di Emanuele Zinato, docente di teoria della letteratura e letterature comparate all’Università di Padova in dialogo con l’autore e le reazioni dei lettori di questo libro che tanto successo ha avuto a livello nazionale quanto scalpore ha suscitato a Valdagno: un paese ai piedi delle montagne che si è scoperto diverso, non solo per l’antico e segreto nome delle carte Vaticane, ma nella sua stessa essenza. 

Scarica il libro da Amazon Kindle Store

Scarica il libro da Apple iBooks Store

Il cortometraggio in due parti, con la lettura di Paolo Rozzi, girato da Riccardo Vencato. Con Alessandro Nardelloto e Emma Della Benetta.

L’autore

Carlo Pizzati è un autore di libri di narrativa e di non-fiction e sceneggiature per il cinema. Vive poco lontano da un villaggio di pescatori in Tamil Nadu (India), scrivendo libri.

Collabora con riviste letterarie, magazine e quotidiani e ha un blog su il Post, su il Fatto Quotidiano, su “Doppiozero” con la rubrica “Indian Polaroids” e in spagnolo su “LMNO” con “El quinto pino”. Scrive in inglese su Scroll.in e collabora a Vanity Fair, GQ e con varie testate.

Nel 2014 è uscito il suo secondo romanzo con l’editore Feltrinelli, “Nimodo“. Nel 2012 è uscita la seconda edizione di “Tecnosciamani” (Il Punto d’Incontro) e la traduzione in inglese con il titolo “Technoshamans” oltre alla raccolta di resoconti letterari e fotografie “Il passo che cerchi” (Edelweiss 2012). Nel 2011 è uscito il primo romanzo “Criminàl” (Fbe Edizioni), ora disponibile in una versione digitale aggiornata su iTunes ed Amazon. 

Per maggiori informazioni, per aggiornamenti e per contattare l’autore visitate la sua pagina Facebook o il suo sito web oppure scrivete a Wannaboo all’indirizzo qui sotto. 

 

“Un libro deve frugare nelle ferite, anzi, deve provocarne di nuove,

un libro deve essere pericoloso.”

E.M. Cioran

Per saperne di più

La Casa Editrice

Criminàl – Extended Edition è un ebook edito da Wannaboo, casa editrice digitale e indipendente che offre la possibilità ai lettori di scaricare da iTunes, Amazon e dagli altri principali store ebook di autori emergenti o affermati che condividano con noi il coraggio di osare, di sperimentare e di innovare. Collaborano con Wannaboo: scrittori, fumettisti, musicisti, videomaker, storytellers, giornalisti e poeti. Per saperne di più:

Catalogo Completo
di Wannaboo

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di Wannaboo

BORGES – ecco perché lo porto sempre con me. di Carlo Pizzati

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borges anniversario garantista Sul comodino accanto al letto tengo due volumi da decenni. Il primo volume mi fu regalato da una fidanzata quando avevamo compiuto da poco i 18 anni. Federica era abitata da un animo poetico e sognante. Nella letteratura avevamo trovato un terreno comune. Dal cofanetto di quel volume, un ragazzo mi fissava con grandi occhi profondi e puliti. Sul bordo del volume, alla base dell’oggetto, si rivelava che il giovane nella foto aveva vent’anni. Colletto inamidato simile a quello di Rimbaud, cravattino, capelli imbrillantinati e infilati dietro le grandi orecchie.

Questo viso già allora era diventato un idolo personale, una divinità le cui magiche preghiere, svelate tra le pagine di carta leggera di quel Meridiano, mi hanno accompagnato per tutta la vita, ricordandomi la forza, la potenza, la gioia della letteratura quando è in grado di trascinare completamente attraverso spazio, tempo e dimensioni la fantasia e l’intelletto del lettore.

Jorge Luis Borges. Tutte le opere. Mai il logo Mondadori con quella rosa piena di spine ha meritato quel motto più di questo cofanetto. “In su la cima.” È lassù che Borges vi porta sempre. E poi dentro un Aleph che contiene l’universo; anche quello della memoria illimitata e insopportabile di Ireneo Funes; anche quello di strani gauchos troppo umani (cui attinge senz’altro Corman McCarthy). Milletrecento e una pagina di sogni, di amore, tristezze e gioia universale, tra le righe di questa opera.

Nelle sue poesie ho scoperto i primi rudimenti di uno spagnolo che ho poi nutrito andando a vivere in Messico e poi proprio nella Palermo Viejo di Buenos Aires doveva abitò quello strano argentino dall’anima anglosassone.

Giravo, in quei miei anni argentini, tra le librerie di Palermo (prima che la commercializzazione edilizia ne deturpasse il nome in Palermo Hollywood e Palermo Soho!) alla ricerca di antiche edizioni dei libri recensiti da quel giovane che mi guarda, anche adesso mentre scrivo, dalla copertina in bianco e nero. Ne ho trovati molti, di questi talismani cartacei.

A un certo punto della vita ho anche memorizzato una poesia in spagnolo di Borges e la ricordo ancora. Parla di pioggia. La ripetevo sempre nella mente, nuotando in una piscina ai piedi dell’Aventino. Una nuotata borgesiana. Acqua scrosciante e ritmata.

“Fervore di Buenos Aires.” “Luna di Fronte.” “Quaderno di San Martin.” E lo storico “Evaristo Carriego” che inizia proprio con “Palermo di Buenos Aires”. “Discussione.” “Storia Universale dell’Infamia.” “Storia dell’Eternità.” “Finzioni,” che lo rese popolare in Italia dagli anni ’80 in poi. Mi limito ad elencare i titoli delle raccolte dentro il cofanetto, per far capire il sapore di una scrittura enciclopedica. Ricordi di Borges.

“Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro, un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva in mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno  a quello della notte, per una vita intera.” Questo è l’ipnotico inizio di “Funes, o della Memoria.” E poi l’altra grande collezione di racconti: “l’Aleph.” “Altre inquisizioni,” “l’Artefice.”

Vi parlo qui liberamente del mio rapporto con questo inarrivabile autore argentino, senza citare cosa ne hanno scritto Domenico Porzio o Pietro Citati. Liberamente è l’aggettivo adatto. Perché è la libertà uno dei più bei regali che Borges ha fatto all’umanità alfabetizzata.

Quei suoi grandi occhi di ventenne si sono rapidamente logorati e Borges come Omero ha continuato a scrivere o produrre i suoi testi anche nella cecità. In quell’universo si va a occhi chiusi ad attingere leggendo le sue opere. Non potendo più vedere il mondo, forse la sua facoltà d’immaginarlo e ricrearlo si amplificò a dismisura, assistita da un talento che va oltre una mente umana, ricreando un universo multi-dimensionale con viaggi temporali e una sensibilità infinita e trascinante.

Leggere Borges è un’esperienza così coinvolgente che per quanto felice e intensa possa essere la vita reale, si vuol sempre tornare nel suo mondo così ricco e profondo. E per quanto triste e confinante possa essere diventata, le sue parole possono liberarci verso un altrove più magico.

borges vecchio e giovane

Non vi ho però detto la verità fino in fondo. Accanto a quel cofanetto del Borges ventenne, ne tengo un altro. L’ho acquistato qualche anno dopo aver ricevuto il primo in regalo. Dalla copertina di quel libro mi guarda un Borges anziano. Il viso è allungato, le guance sgonfie, mentre i capelli bianchi, diradati sulla fronte, svolazzano lungo le tempie. Gli occhi non fissano più me, hanno da tempo perso quella pacata fissità del ventenne che gli sta accanto. L’orbita sinistra, che gli esoterici associano alla contemplazione di ciò che è irrazionale, è più grande e sembra fissare un punto oltre chi lo osserva, come se lo trapassasse. L’occhio destro è più socchiuso, e le sopracciglia sono bloccate in una posa quasi meravigliata, come se quest’uomo, nel suo buio, avesse visto davvero così tanta luce da restarne abbacinato.

Le pagine sono 1471. Si passa da “l’Altro, lo Stesso” (molto appropriato per i miei due cofanetti) a “Per le Sei Corde;” “l’Elogio all’Ombra;” “il Manoscritto di Brodie;” “l’Oro della Tigre;” “il Libro di Sabbia;” “la Rosa Profonda,” “la Moneta di Ferro;” “Storia della Notte;” “Tre racconti e la Cifra;” “i saggi Danteschi” e “Atlante.”

Poesie, poesie, poesie e immagini, gocce infinite. Racconti brevi e eterni.

C’è spazio, qui, solo per comunicarvi questi titoli già di per sé evocativi del contenuto. E per dirvi come uno scrittore può liberare un ragazzo di 18 anni, invitarlo alla letteratura, accompagnarlo come un fratello, prima, e poi come un anziano fantasma.

Quei due volti mi hanno fatto pensare, per tutta la vita, al scivolar via del tempo lineare, al giovane che sono stato e al vecchio che spero di arrivare ad essere, se così sarà.

E anche in questo sollievo, Borges è stato, già solo con la sua inconsapevole effigie, un liberatore.

Grazie, Federica. Ti voglio sempre bene e ti perdono, anche se mi hai lasciato per un ingegnere belga, hai fatto tre figli e, come mi hai detto l’ultima volta che ci siamo parlati al telefono vent’anni fa, ti sei un po’ sformata.

(Il Garantista, 14 giugno 2015 – Cultura)

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“Inventati la scrittura. Scrivi la verità, e camuffala da invenzione.” Intervista per Classe Turistica a Carlo Pizzati

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Dimmi qualcosa di te. Come ti guadagni da vivere?

Pensando e scrivendo.

Come è scandita la tua giornata?

Sveglia presto, meditazione, yoga, colazione, scrittura fino a pranzo, riposare e pensare, lettura, thè, passeggiata di un’ora, editing e/o scrittura, meditazione, cena, vedere una film o episodio di serie tv, leggere, dormire. Questo quando non sto insegnando all’università. Il tutto intervallato da qualche post su FB, Twitter, LinkdIn o Google+ quando capita.

Quali sono le tue passioni o interessi?

Leggere, scrivere, viaggiare cercando di capire la natura e la trasformazione della presunta realtà. Una bella passeggiata chiacchierando con una persona amica o con mio figlio.

Cosa ti da serenità?

Il silenzio.

Il tuo ultimo libro?

Il mio libro pubblicato più di recente è “Nimodo” (Feltrinelli) la storia di un giovane giornalista triestino che insegue per tutta l’America Latina una guerrigliera cilena di cui si è innamorato e così facendo scopre e trasforma se stesso.

Perché un ragazzo dovrebbe comprarlo?

Per capire che è utile seguire la propria curiosità con coraggio. Per viaggiare in un intero continente provando un po’ di emozioni, senza uscire di casa.

Qualcosa della tua visione del mondo:

Avessi una bacchetta magica cosa faresti?

Eliminerei la violenza e porterei più uguaglianza, fratellanza e libertà nel mondo, magari con un po’ più di saggezza e tolleranza, già che ci siamo.

Potessi cambiare qualcosa cosa faresti?

Trasformerei radicalmente l’Italia, dove penso si soffra più del necessario con un pessimo “rapporto qualità/prezzo,” come si dice nell’orrida parlata corrente rovinata dalla mercificazione di tutto.

Qualcosa sull’insegnamento:

Se fossi un insegnante come imposteresti una lezione tipo?

Sono anche un insegnante, in quanto docente di teoria della comunicazione per un corso post-graduate in un’università indiana. Le mie lezioni sono impostate prima sull’esposizione da parte mia della materia tramite diapositive e discussioni, segue poi dialogo e stimolo a discutere e pensare in maniera critica da parte degli studenti. Il dialogo continua in un blog online dove si fanno i compiti elaborando analisi su testi rilevanti che vengono discussi sia nei commenti online che poi in classe. Penso che le lezioni migliori siano composte di una fase che è il trasferimento della conoscenza e l’altra, più importante, che è la  costruzione della comprensione tramite la partecipazione degli studenti.

Su quali materie punteresti?

Se fossi un insegnante di altre materie oltre a quella di cui sopra, mi dedicherei a corsi di scrittura creativa, fotografia, giornalismo, letteratura, italiano, inglese. Se fossi uno studente (anche se lo sono sempre in rapporto alla conoscenza, e ne sono felice) cercherei d’interrogarmi il prima possibile, già dalle scuole medie e certamente alle superiori, su che cosa mi piace e perché. Non penso che genitori e scuola facciano abbastanza per aiutare i ragazzi a concentrarsi molto presto su questa importante domanda, risolta la quale tutto è più facile poi nella carriera scolastica e accademica, e anche nella vita. Ho avuto la fortuna di capire presto la mia vocazione e i miei gusti, nel mio caso senza molti aiuti esterni. Ma credo che parlarne con gli adulti e con gli amici e spingere a uno sforzo di esame su se stessi, e su ciò che piace, aiuti davvero a scegliere su cosa puntare. Aiuta quindi a scegliere i libri da leggere, le persone da frequentare, i film e i programmi tv da vedere. Il “conosci te stesso” inizia anche in maniera semplice, non implica sempre e solo un’ardua e complessa analisi filosofica, spirituale o psicologica. Può iniziare, ad esempio, chiedendosi quale musica ti piace ascoltare riuscendo ad articolare una spiegazione dettagliata e veridica sul perché ti piace proprio quella musica. Da lì si passa a ciò che piace leggere. E da lì si va in crescendo capendo anche il proprio ruolo nel mondo del lavoro, nella società, e infine nell’esistenza.

Cosa manca e cosa possiede secondo te la scuola italiana?

Premessa la mia limitata esperienza diretta con la scuola italiana, essendomi laureato all’estero, mi sento di dire che ciò che manca alla scuola italiana è il sostegno di un sistema meritocratico ed efficiente che mi par di capire nessuno finora sia riuscito ad instaurare, adducendo come motivazione a volte anche il dubbio sul concetto stesso di meritocrazia, visto come modo per discriminare contro i meno forti.

La meritocrazia non è discriminazione verso i più deboli, ma è quel sistema che premia i più meritori, continuando a dare sostegno a chi ha più difficoltà per consentir loro che sviluppino la propria intelligenza e qualsivoglia talento possano avere.

Purtroppo, chi dovrebbe costruire un sistema migliore è spesso il prodotto della sua antitesi, essendosi formato in una struttura piuttosto difettosa, quella attuale, quindi non mi è chiaro come si possa uscire da questo circolo vizioso. Ci vorrebbe uno sforzo evolutivo, ma non mi pare vi siano le premesse. Potrei fare lo spacciatore di speranze, ma non mi è congeniale.

Quel che possiede la scuola italiana, per quanto ne so,  è una buona percentuale di insegnanti, maestre e maestri, docenti, professoresse e professori che, a fronte di uno stipendio inadeguato ai loro sforzi e nell’ambito del suddetto sistema vessatorio, si dedica con vero amore all’insegnamento, facendo spesso miracoli e aiutando le vite dei loro fortunati studenti.

Poi ci sono gli approfittatori che spingono i loro studenti ad odiare la scuola, le materie che insegnano e la conoscenza. L’esistenza di questo genere di persone è sintomatico di ogni categoria professionale, ma trova terreno fertile e duraturo in un sistema fragile come quello della scuola italiana.

Ti senti di dire qualcosa ai ragazzi di oggi?

Prima di tutto vorrei dire che sono straordinari. Per quel poco che ho potuto osservare sia attraverso l’esperienza come giurato per il Touring che in altri contesti come le presentazioni dei libri, i commenti sui social, la frequentazione di nipoti e amici, considerato il contesto critico nel quale sono costretti a crescere, ho spesso trovato in loro una capacità di reagire con ottimismo e con forza e pragmatismo che i loro fratelli più anziani, cioè la generazione precedente, non avevano. Quindi quello che vorrei dire loro è: complimenti, continuate così!

Viaggi:

Non si può dire che tu sia un tipo sedentario: a 16 anni hai lasciato il Veneto per Pensacola, in Florida, poi Washington D.C. e New York. Poi hai vissuto per alcuni anni in Messico, poi in Argentina e in Spagna, e dopo varie altre tappe tra cui Madrid, Milano e Roma…ecc,  ti sei fermato, non solo per amore, in India. Le dolomiti, però, le hai sempre nel cuore.

Con un tale bagaglio di esperienze di viaggi quale è stato il più bello (interessante, felice, ecc) che hai fatto?

Ho riflettuto molto in questi giorni, per coincidenza, sul tema del viaggio e del turismo, essendomi trovato, in quanto viaggiatore, in un contesto turistico in Vietnam e Tailandia. E questo mi ha spinto ad elaborare una precisa distinzione tra il concetto di viaggiatore e di turista. Per questo potrei dire che il viaggio più bello è stato lungo un fiume dell’Amazzonia dormendo in un’amaca in un battello per andare a visitare una riserva naturale. Oppure una passeggiata sulle Ande assieme a Don Gabicho, uno degli ultimi parroci sopravvissuti all’inquisizione contro la Teologia della Liberazione. Oppure, oppure, oppure. Sono troppi. Dico invece che il viaggio più bello che chiunque può fare, adesso, in questo momento, è di mollare tutto, lasciare a casa o in ufficio il cellulare e camminare in una linea il più possibile diritta per 10 chilometri fermandosi a parlare con chi è ancora in grado di farlo tra sconosciuti. Il viaggio più bello è molto vicino a noi. È rischioso. Per questo può essere molto bello. O disastroso.

Da ultimo un consiglio a chi volesse fare il giornalista / scrittore?

Liberati subito dalla definizione che hai in mente di giornalista e scrittore. Sarà già un buon inizio. Inventati la scrittura. Scrivi la verità, e camuffala da invenzione.

(l’intervista è disponibile online anche a questo link.)

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@speciale letto&detto: cosa pensa Carlo Pizzati della lettura e delle biblioteche?

detectivestory_001_2Carlo Pizzati, scrittore

Perché hai scelto il lavoro/mestiere che fai?

Ho iniziato ad amare la lettura quando ero in prima elementare. Dev’essere nata allora l’idea che la cosa più bella che avrei potuto fare nella vita sarebbe stata di scrivere anch’io storie simili a quelle che leggevo per creare un mondo attraverso un racconto e spiegare quel che sentivo e pensavo.

Qual è l’aggettivo che meglio definisce la tua attività?

Delirante. Si basa sull’opinione che gli altri hanno di ciò che fai e, ancora più difficile, su quella che tu hai del tuo lavoro.

Quale è stato il primo libro che hai letto?

Non lo so. Ricordo un’enciclopedia ricevuta in eredità da mio nonno, “Il Tesoro,” che custodisco ancora. Conteneva leggende e mitologia di tutte le culture, romanzi e racconti da tutto il mondo. Sicuramente questi testi mi hanno portato verso la letteratura. Non ricordo il primo libro letto, ma ricordo bene il primo libro che ho riletto. S’intitola “Emil,” di Astrid Lindgren. Il protagonista è un bambino svedese molto vivace, come lo ero anch’io, che viene chiuso in castigo, come succedeva anche a me, e lì passa il tempo intagliando statuine di legno, mentre io iniziavo a immaginare e a scrivere le mie storie. La storia finisce bene. Quella che sembra la peggior marachella di Emil si scopre invece essere un atto eroico, che lo riabilita. Mi riconosco anche in questo.

Quale libro ti ha lasciato un ricordo speciale?

Durante l’adolescenza credo sia stato il classico “Cent’anni di Solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, altro testo che ho riletto più volte e che, nel suo racconto a ritroso nel tempo, incentrato su un unico villaggio piovoso, mi ricordava il luogo dove abitavo e le storie di famiglia che ascoltavo, là dove sono cresciuto. Un luogo però molto ben più freddo della Macondo colombiana.

Quale libro consiglieresti a un giovane lettore?

Ho appena finito di leggere due libri adolescenziali su richiesta di mio figlio: “Divergent” e “Insurgent” di Veronica Roth. Lui sta leggendo l’intera trilogia e voleva parlarmi di questa storia che riguarda anche la capacità di trovare il coraggio di essere ciò che sei davvero. Anche se sono libri un po’ leggeri per i miei gusti, ho trovato qualcosa di utile in essi, soprattutto per i ragazzi di adesso. Mi rendo conto che i libri che leggevo a 11 anni sono per mio figlio un po’ “pesanti”. Ma quello che consiglio a lui, o a un giovane lettore che ami la lettura di fantascienza o di fantasy, categorie molto seguite in questi anni, è di leggersi “1984” di George Orwell che, pur conservando elementi fantastici, disegna un paragone con una realtà politica ben definita e sempre attuale. Anzi è ancora più attuale adesso. Poi, in un mondo immaginario, sogno che un ragazzo voglia leggere “Guerra e Pace” di Tolstoj che mi sto rileggendo adesso, per riprendermi dalle letture adolescenziali. C’è tutto, amore, tensione, battaglie, coraggio, saggezza, follia.

Leggere fa bene? E perché?

Leggere non fa bene a tutti. Gli studenti che a scuola sono costretti a leggere, pur non avendo alcuna propensione alla lettura, non dovrebbero sforzarsi troppo. A loro non fa per niente bene. Sono solo futuri non-lettori che odieranno la lettura. Il problema è riuscire a far capire i meriti e le gioie della lettura. Senza forzare mai la mano. Ma perché leggere? Perché aiuta a capire la realtà meglio ancora dell’esperienza, dalla quale però non dev’essere disgiunta, come troppo spesso accade a chi si fa sedurre dalla morbidezza di un mondo fatto di parole, soprattutto quando sono scritte bene. L’esperienza di vita fa godere ancor di più il piacere della lettura, e la lettura fa capire e affrontare molto meglio l’esperienza di vita. È un’invenzione umana, la lettura, che, se ben utilizzata, migliora immensamente la qualità dell’esistenza.

Qual è il tuo primo ricordo di una biblioteca?

Il primo ricordo di una biblioteca risale a quando studiavo in un liceo americano a Pensacola, in Florida. Ricordo un’organizzazione rigorosa e precisa, grande efficienza e l’orgoglio d’esser custodi della conoscenza. Lì scoprii nuovi autori che non conoscevo. A volte anche per caso. Questi momenti di epifania casuale sono forse tra le meraviglie più note delle biblioteche, ma per me restano uno dei meriti meno raccontati di quel che può succedere tra quegli scaffali.

Come definiresti la biblioteca?

Se penso alla biblioteca non posso non vedere Jorge Luis Borges, che l’ha rappresentata in tutta la sua potenza. Per me Borges è lo scrittore-bibliotecario che custodisce una conoscenza nella quale solo lui riesce a trovare i collegamenti e a mostrarceli. La biblioteca è un luogo di scoperta. È una terra incognita di cui conosci alcune oasi e mentre ti sposti tra una e l’altra, se hai gli occhi aperti, avrai delle sorprese. Gran parte delle volte stupende. Queste scoperte ti porteranno ad altre ancora. E, come nella ricerca della verità, non si arriva da nessuna parte. Ma il viaggio ne vale la pena.

Cosa ti piace di più in una biblioteca?

La sua promessa di conoscenza. Il protagonista del mio primo romanzo, Gino Calcagno, vive dei veri momenti di estasi e vertigine nelle ricerche tra vari archivi e biblioteche: dagli Archivi Segreti del Vaticano, all’Archivio di Stato e alla Biblioteca Marciana di Venezia; dalla Sala Manoscritti Antichi della Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza fino alla Biblioteca di Cornedo Vicentino. Ciò che lo affascina, e che mi ha stregato mentre io stesso conducevo l’indagine storica che riguarda il titolo del romanzo, è il dialogo silenzioso che s’instaura con gli autori dei resoconti, dei documenti, dei testi che vengono consultati. Lì, in quelle tranquille sale, si ha davvero la sensazione che il tempo si restringa, che i decenni o secoli che separano gli avvenimenti si accorcino. Con la giusta dose di fantasia e immaginazione si può iniziare il più intenso ed emozionante viaggio nel tempo che si possa intraprendere.

A quale altra domanda avresti voluto rispondere?

A questa: Ma le biblioteche sono utili agli scrittori? In realtà potrebbe sembrare di no. In una biblioteca un libro viene acquistato solo una volta e viene letto da decine, centinaia, migliaia di persone. Un disastro economico, per un autore che cerca di vivere con quello che scrive. Ma in realtà non è così drammatico. Promuovere la lettura aiuta tutti gli scrittori. Bisogna vedere le cose in grande. Ma è quello che uno scrittore deve fare comunque.

Carlo Pizzati è un autore di libri di narrativa e di non-fiction e sceneggiature per il cinema. Vive poco lontano da un villaggio di pescatori in Tamil Nadu (India), lavorando al suo quarto romanzo. È nato a Ginevra nel 1966 ed è cresciuto fino a 16 anni a Valdagno, in provincia di Vicenza. Dopo due anni al liceo Ginnasio G.G. Trissino, nell’82 si è trasferito a Pensacola (Florida) dove si è diplomato e ha iniziato l’Università. Si è laureato in Scienze Politiche ed Economia all’American University di Washington D.C. Nell’89 ha conseguito un Master in Giornalismo presso la Columbia University di New York.

intervista disponibile online anche a questo link.

Thomas Bernhard, lo scrittore maledetto che ci servirebbe ora (di Carlo Pizzati)

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imagesEsistono scrittori che nella loro schiacciante grandezza rovinano innumerevoli esordienti. Sono autori il cui stile è così magnetico che genera file di imitatori i quali, non riuscendo mai ad avvicinarsi al loro modello, resteranno per sempre impastati nell’acredine. Ma non un’acredine sufficiente a far di loro dei Thomas Bernhard. Tra i responsabili più noti di quest’inconsapevole reato letterario troviamo il solito Gabriel Garcia Marquez, il volteggiante Milan Kundera, l’inarrivabile Jorge Luis Borges e, nella provincia chiamata Italia, Italo Calvino. Oggi mi dicono che esistono anche gli imitatori di Paulo Coelho.

Pochi autori, però, sono stati e sono pericolosi come Thomas Bernhard. Nei “favolosi” anni ’80 già s’insinuava la moda di leggere i suoi ultimi romanzi, a detta della critica i più maturi e riusciti. Quell’ipnotizzante monologare senza andare a capo e quell’Austro-patia, in cui bastava sostituire la propria nazione d’appartenenza, apparvero subito come una potente, dilaniante liberazione. Bernhard è un libertador della coscienza. Soprattutto della coscienza borghese che criticava. Quella che segue le mode letterarie, ad esempio. Come Fellini viene adorato dalla borghesia post-bellica democristiana perché ne indica con garbo sognante difetti e contraddizioni, come Nanni Moretti è idolatrato dalla borghesia conservatrice finta-stracciona di sinistra perché ne scimmiotta i tic, così il Grande Austriaco ci regala tutto il livore che dentro di noi proviamo inevitabilmente nei contesti soffocanti delle convenzioni sociali, soprattutto se ci si trova nell’umiliante ambito politico-giornalistico-artistico-culturale ben conosciuto ovunque.

Thomas Bernhard su il Garantista

Quanto avrebbe odiato queste parole, Thomas Bernhard. Quanto facilmente avrebbe distrutto con brio il suo autore, con la precisione di un sguardo impietoso e quindi lucido. E allora stuzzichiamone la memoria. L’insulto più grande per Thomas Bernhard è di ricordarne la nascita, il 9 febbraio del 1931, a Heerlen, in Olanda. “Odio i libri e gli articoli che iniziano con una data di nascita. Odio in assoluto libri e articoli che adottano un approccio biografico e cronologico; ciò mi appare di gran cattivo gusto e nel contempo la procedura meno intellettuale che ci sia.”

Per essere disgustosamente cronologici, la prima cosa da sapere è che il cognome di Bernhard, come ricorda Gitta Honegger nella sua ben argomentata biografia, fu il primo incidente che l’allontanò dalla famiglia, invece d’avvicinarlo. Il vero nonno di Thomas era uno scrittore di nome Johannes Fraumbichler. La nonna in realtà era sposata a Karl Bernhard, ma ebbe da Fraumbichler una figlia cui diede il cognome del marito cornuto e legittimo. Herta Bernhard, già lei figlia illegittima, va a lavorare in Olanda come donna delle pulizie e lì, nel 1931, partorisce Nicolaas Thomas Bernhard: figlio illegittimo di un falegname che non lo riconosce e che fugge in Germania, dove nel 1940 si suiciderà per avvelenamento a gas. Nel ’36 la madre si sposa ed ha due figli. Thomas resta l’unico in famiglia con il cognome della madre. Il patrigno si rifiuta di adottarlo e di dargli il suo cognome. Il conflitto con la madre si fa intenso. Viene spedito in un collegio per “bambini difficili” in Turingia. Poi in un ostello cattolico per ragazzi a Salisburgo.

Non sorprende che, circondato da tanto astio, guardato in cagnesco come “il bastardo,” per Bernhard il centro della famiglia resti sempre il vero nonno, quel sognatore, anarchico e bisessuale Johannes Fraumbichler che passò la vita cercando e fallendo nei suoi tentativi di diventare un grande scrittore, nonostante un primo e unico successo. Gli anni, pochi, in sua compagnia sono paradisiaci nella memoria di Bernhard.

Quasi tutti i suoi scritti, come sostiene Tim Parks nel NY Review of Books, hanno come fulcro un personaggio mono-maniacale ossessionato dal trionfo che ricorda Fraumbichler e su cui Bernhard modella il proprio carattere. Che sia la perfezione intellettuale di “Il nipote di Wittgestein” o i fallimenti paralizzanti della “Fornace,” il personaggio centrale è sempre una catastrofe per chi lo circonda e alla fine per sé stesso.

Thomas lascia la scuola a 16 anni per fare il garzone in una bottega di alimentari, ma prendendo lezioni private di canto (forse proprio ispirato dall’afflato artistico del nonno). I sogni da tenore soffocano a 18 anni in una tubercolosi curata con due anni d’ospedale. Mentre Bernhard sfiora la morte, sia il nonno idolatrato che la madre periscono davvero. Ciò lo sprofonda in un lunga depressione dalla quale emerge deciso a riconquistare pienamente la salute. E il mondo. Con l’aiuto di una nuova amica che ha 36 anni più di lui.arton1720-8d51a

Nelle sue passeggiate notturne non autorizzate dall’ospedale, conosce infatti la sua protettrice che diventerà suo pigmalione: Hedwig Stavianicek, vedova ed ereditiera di una famosa marca di cioccolato. La milionaria introduce il fragile, determinato e brufoloso 19enne alla più alta società austriaca. Inizia così una collaborazione come critico culturale con due giornali di Salisburgo e diventa subito una vera spina nel fianco di una società che rinnegava o nascondeva il proprio ruolo nell’Olocausto. Con una critica teatrale al limite dell’isterico, si conquista la sua prima causa per diffamazione e così la fama: ora i giornali parlano di lui. Abbandonato il giornalismo culturale, esplora la recitazione teatrale e scopre il suo ruolo migliore: il vecchio brontolone arrabbiato. Ora è perfettamente integrato nell’avanguardia austriaca. Seduce uomini e donne (non sessualmente, a quanto risulta), ma causa turbolenze emotive di qua e di là, riparando dalla “zietta” Stavianicek quando le cose si mettono male. Odia l’Austria, ma è in questo perfettamente austriaco (uno dei pochi punti in comune tra Austria e Italia). Alcuni concittadini lo accusano d’essere un Nestbeschmutzer, uno “sporca-nido.”

“Il passato dell’Impero Asburgico è ciò che ci forma. Nel mio caso è forse più visibile che in altri. Si manifesta in una sorta di odio-amore per l’Austria. Questa è la chiave di tutto ciò che scrivo.”

Ma Bernhard è limpidamente consapevole del fatto che la scrittura non ha il potere di alterare la società che critica senza rimorsi. Al contrario, l’artista è coinvolto nello show da baraccone. “L’immaginazione è un’espressione del disordine, dev’essere così” dice il pittore in “Gelo.”

Mi limito a trascrivere tre incipit di suoi romanzi, il cui stile non ha bisogno di ulteriori lodi: “Nel millenovecentosessantasette, nel Padiglione Hermann dell’Altura Baumgartner, una suora che vi svolgeva con solerzia infaticabile il suo lavoro di infermiera mi depose sul letto Perturbamento, il libro fresco di stampa che avevo scritto un anno prima a Bruxelles in rue de la Croix 60, ma io non ebbi neanche la forza di prendere in mano quel libro essendomi appena svegliato, erano passati solo pochi minuti, da un’anestesia totale durata parecchie ore che mi era stata praticata dagli stessi medici che mi avevano aperto il collo in modo da poter estrarre dalla gabbia toracica un tumore della grandezza di un pugno.” (Il nipote di Wittgenstein). “Un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione. Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.” (Il Soccombente). “Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un’ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza. Grafenhof era una parola funesta, a Grafenhof dominavano in maniera esclusiva e con perfetta immunità il primario e il suo assistente e l’assistente di quest’ultimo, nonché le condizioni, tremende per un giovane come me, di un pubblico sanatorio per turbercolotici.” (Il Freddo).

82b6545c1a873c83a915ba4174e30d67I suoi libri hanno un successo internazionale.  Piace sia come autore teatrale che come romanziere e autore di racconti brevi. È prolifico e finisce in quella contraddizione creativa che lo caratterizza tra il profondo bisogno di esprimersi e l’ossessiva pulsione verso un isolamento supremo. È questa opposizione di poli a generare una delle voci più memorabili della letteratura europea.

Finisce così isolato dietro ad alte siepi, in un vecchio casolare di campagna nella frazione di Obernathal, in Austria. Dall’altra parte scorre la vita del villaggio della provincia, e gli adulti lo usano simbolicamente come spauracchio per i bambini. Lui ride amaro dell’inutilità di quel che scrive: “Perché applaudono?” si chiede, guardando i borghesi godere dei suoi spettacoli contro la borghesia, ma anche contro l’intellighenzia, contro tutto. Nell’89, il 12 febbraio, pochi giorni dopo il 58esimo compleanno, sapendo che doveva morire per malattie ai polmoni e al cuore, si uccide con un’overdose di medicinali. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte.”

Leggerlo dà l’intensa impressione di riuscire ad assaporare, brevemente racchiusi nello spazio artificiale di performance letterarie uniche, un vero quadro delle contraddizioni che guidano le nostre vite. Il mondo è orrendo, le ruminazioni della mente che descrive quest’orrore non lasciano spazio ad alcuno ottimismo, ma i meccanismi inventati per esprimere il disastro in cui viviamo è sempre esilarante.

In questo sta il suo genio. Ascolti il vecchietto malmostoso decomporre tutto ciò che vedi e conosci, facendo scomparire, filo per filo, la grande “Matrix” che ci circonda.

Poi “l’agile salto improvviso del poeta-filosofo” (I. Calvino su Cavalcanti) ti fa esplodere in una risata.

Sul mondo, su noi stessi, sulla grande Commedia.

(pubblicato il 24 gennaio 2015 sulla pagina di Cultura de il Garantista)

“Liberi dalla schiavitù del lavoro” apologia di Marshall McLuhan di Carlo Pizzati

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Woody Allen in fila al cinema con Diane Keaton in “Annie Hall” è infastidito dalle sbruffoneggiate pseudo-intellettuali di un nevrotico newyorkese che dietro di loro parla di Marshall McLuhan.

“Cosa non darei per avere una grande calza piena di merda di cavallo per darla in testa a uno così!”

“Ehi, aspetta, questo è un paese libero, posso dire quello che voglio!” si lagna l’intellettuale.

“Ma tu non capisci niente di Marshall McLuhan!”

“Capita che io insegni un corso alla Columbia University che si chiama ‘TV, media e cultura’ quindi penso che la mia visione sul signor McLuhan abbia un certo peso…”

“Davvero? Davvero? Perché capita che io abbia il signor McLuhan proprio qui, e allora, e allora, lascia che…lascia che…” Woody Allen infila la mano dietro un cartellone pubblicitario e ne estrae un elegante signore in cravatta scura e giacca color crema: Marshall McLuhan.

“Ho sentito quel che ha detto. Lei non sa nulla del mio lavoro. Quel che lei dice vorrebbe dimostrare che il mio intero sofisma era sbagliato. Che lei sia riuscito a farsi assumere per insegnare quel corso è strabiliante.”

Woody Allen guarda il pubblico, sconsolato, e dice: “Se solo la vita potesse essere così…”

woody-allen-marshall-mcluhan-thumb-350x233-37609Era il 1977 e la parabola di Marshall McLuhan stava per toccare il fondo, nonostante gli sforzi di Woody Allen e di altri. Protestante convertito al cattolicesimo, forse per questo sfornò sei figli che dovette poi mantenere e quindi, già accademico di successo mondiale, stella internazionale del suo Villaggio Globale, già meme con “il mezzo è il messaggio,” si dovette far assumere come consulente e conferenziere proprio per quelle multinazionali come l’IBM e la telefonica AT & T da cui metteva in guardia il mondo. Il famoso “punto di appoggio” da cui Archimede avrebbe sollevato la Terra con la sua leva “è stato affittato alle società private,” aveva previsto.

Morì a Capodanno del 1980, alba di un decennio che non fu molto rispettoso del suo genio. Ebbe un ictus e il suo cervello, che secondo la biografia di Douglas Copeland era irrorato da due arterie invece che una, ne risentì, essendo già sopravvissuto a un tumore benigno. Durante le ultime lezioni universitarie si bloccava a metà frase e poteva restare così, nel silenzio, anche per parecchi minuti prima di riprendere la frase esattamente dove l’aveva lasciata e completare il ragionamento.

Eppure dopo che negli anni ’80 e ’90 il suo pensiero fu declinato alla francese da Lacan, Baudrillard e Derrida, sopravvivendo anche agli attacchi di Umberto Eco e Regis Debray, ecco che la realtà dimostra che quest’uomo ha saputo fotografare, molto prima che iniziasse ad accadere, la trasformazione che stiamo vivendo oggi. Come spesso capita agli artisti, era troppo in anticipo. O, come rapperebbe er Piotta, era “troppo avanti”.

Si può sperare anche che fosse in anticipo sulla sua idea di sviluppo tecnologico come chiave di affrancamento e liberazione dai vincoli del lavoro. McLuhan spiegava che, paradossalmente, l’automazione rende lo studio delle discipline umanistiche ancora più importante. Alle macchine ciò che è meccanico, agli umani ciò che è intuito. Nel nostro nuovo Medioevo pervaso dalla tirannia degli ingegneri informatici, questo ancora non si è realizzato del tutto. Ma come le macchine e le automobili hanno liberato dalla servitù i cavalli, così l’automazione libererà l’umanità.

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“Gli uomini sono diventati all’improvviso nomadi raccoglitori di informazioni, nomadi come non mai, informati come non mai, liberi dalla frammentaria specializzazione come non mai, ma anche coinvolti nel processo sociale come mai prima; poiché con l’elettricità noi estendiamo il nostro sistema nervoso globalmente, interrelazionando  subito ogni esperienza umana.” All’epoca non solo non esisteva WhatsApp, Viber, Skype, Facebook e Twitter: non esisteva nemmeno il World Wide Web, e il suo precursore del Pentagono, Arpanet, sarebbe nato solo cinque anni dopo.

Aveva anche capito che nei decenni successivi saremmo stati costretti a partecipare perché “l’implosione elettrica spinge all’impegno e alla partecipazione.” E alla libertà.

La profezia di 50 anni fa immaginava una società in cui le macchine al servizio dell’uomo gli avrebbero consegnato la libertà di sviluppare la propria tendenza artistica.

Ecco, l’arte. Sperava, questo intellettuale canadese dal pensiero secco e freddo come i paesaggi della sua Winnipeg, nel Manitoba, che la “società elettrica” avrebbe portato all’autonomia artistica.

Per lui, l’arte era “un’informazione esatta su come riorganizzare la propria psiche per anticipare il successivo colpo generato dalle nostre facoltà estese.” Tradotto (a rischio di farsi prendere a colpi di calza piena di merda di cavallo): liberati dalla schiavitù del lavoro automatizzato grazie all’avvento delle macchine, l’uomo si sarebbe potuto dedicare più liberamente a interpretare i cambiamenti storici cui partecipava. E’ andata così? Non proprio. O non ancora? Le idee di McLuhan erano “indagini,” “mosaici,” inviti a pensare ai media, non assiomi.

WellAdjusted“Nell’era elettrica indossiamo l’intera umanità come fosse la nostra pelle.” Queste parole, da “Understanding Media,” nel 1964 dovevano esser sembrate solo un bel verso poetico. Oggi sono chiarissime.

La narcosi nascosta etimologicamente nel narcisismo induce l’uomo a diventare il servomeccanismo della propria immagine estesa e ripetuta. In questa sonnolenza nemmeno le frammentate grida della ninfa Eco arrivano a Narciso che è diventato ormai un sistema chiuso. Familiare? Guardate chiunque vi stia accanto risucchiato da uno schermo e capirete.

“L’uomo è l’organo sessuale delle macchine, così come le api lo sono delle piante.” E questo ci porta al fatidico “il mezzo è il messaggio.” “Il contenuto è la grattata, il mezzo di comunicazione è il prurito.” “Il contenuto è il succulente pezzo di carne portato dal ladro per distrarre il cane da guarda della mente.” Ovvero: “il messaggio di ogni mezzo o tecnologia è il cambiamento apportato alla scala, ritmo o schema che viene introdotto nelle cose umane.” O, meglio ancora: “Tutto ciò che accade alla luce di una lampada elettrica o di un neon è il ‘contenuto’ di quella luce elettrica: non esisterebbe senza di essa.” Non importa cosa fai, cosa metti su Internet o come lo usi, appena lo usi tu sei il suo contenuto, ed è Internet il messaggio.

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The Mechanical Bride (’51), studio critico sulla cultura pop; The Gutenberg Galaxy (’62) sulla crescita dell’individualismo nell’uomo tipografico e in cui si descrive il famoso Villaggio Globale sono culminati poi in Understanding Media da cui nascono le idee di mezzi caldi e freddi, l’età dell’ansia, la scomparsa del linguaggio nel futuro tecnologico (lo vediamo ora frammentarsi in 140 caratteri), la fotografia che rende gli essere umani degli oggetti e poi l’importante concetto che gli spazi pubblicitari sono buone notizie in un mare di brutte notizie (un segreto ancora ben celato da media ed editori).

Aveva visto bene su musica, cinema, radio, tv e armi e persino sui videogiochi, ora punta d’avanguardia della colonizzazione inversa della tecnologia nelle menti. “Il futuro del lavoro consiste nel guadagnarsi da vivere nell’era dell’automazione,” lo scriveva 50 anni fa. Ciao ciao Eco, ciao ciao Debray e tutti i suoi nemici.

Una delle sue barzellette preferite spiega sia il suo sense of humour, sia ciò che cercava di dire con le sue teorie. E forse può esser vista anche come una presa in giro dei suoi detrattori. La storiella descrive due indiani Navajo che si stanno facendo una chiacchierata da un capo all’altro dell’Arizona con segnali di fumo. A metà della conversazione la Commissione per l’energia atomica fa detonare una bomba nucleare. Quando il nuvolone a fungo si disperde, il primo indiano manda all’altro un segnale di fumo che dice: “Mannaggia, magari l’avessi detto io!”

follow on twitter: @carlopizzati

(pubblicato a pagina 9 su il Garantista il 30 agosto 2014 per la rubrica lo Scaffale)

McLuhan su il Garantista

Caos è parole. di Carlo Pizzati

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Secondo i Veda e la Bhagavad Gita, il Caos è Maya, cioè l’illusione di questa realtà.

Il Caos non è un misterioso disordine cosmico che ci attende nel blu profondo dell’Universo, nascosto dietro qualche galassia. E nemmeno un magmatico oceano di lava che ribolle minaccioso accanto al cuore della terra.

Caos è piuttosto l’illusione generata dal Samsara, il continuo gioco tra desiderio e sofferenza che costella e soggiace alla trama della vita.

Il Caos quindi è nella nostra percezione. Il Caos è la Parola. Senza la parola “caos” non ci sarebbe il Caos. Il Caos allora è nel credere ai nostri sensi. Nel credere anche in un senso delle cose, senso che con tutta probabilità, invece, ci sfugge.

Sembra contraddittorio, ma nella logica vedica, secondo la quale l’unica cosa che esiste è l’Uno, l’Atman, il Brahman, e cioè la Consapevolezza Assoluta, non vi è alcuna contraddizione nel vedere la realtà come Caos.

Cosa possono fare le parole, o meglio la parola, in rapporto al Caos?

La parola, secondo i Veda, è una colonna d’acqua scrosciante fra cielo e terra.

Prajapti, il Dio creatore, si congiunge a Vac, la Parola, per generare gli dei (vedremo poi come Vac stessa nasce da Prajapati). Ma è Vac, la femmina, la parola a ingravidare Prajapati, facendo nascere così da lui otto gocce, otto dei, i Vasu. E il coito continua e nascono altre gocce o divinità: i Rudra, gli Aditya, dei della luce, e poi Visvedevah, Tutti-gli-dei. E poi Prajapati si stacca da lei, dalla parola.

Ma prima che Vac nascesse Prajapati non era solo il Dio della creazione, era la creazione stessa, al punto tale da non poterla nemmeno descrivere, poiché egli era e basta. E non aveva parole per descrivere se stesso. Quando nacque Vac, Prajapati fu finalmente in grado di contemplare la creazione, cioè se stesso. Ovvero, la Parola è alla radice stessa della coscienza di sé. Anche se questo sé è sempre solo il poliedrico gioco dell’Illusione, come la creazione stessa.

Vac è anche la grandezza stessa di Prajapati. Come si crea la parola? La mitologia vedica anche qui ci restituisce immagini simboliche utilissime a capire il significato del lemma.

Quando il Dio creatore osserva inorridito il figlio Agni (il fuoco) voltarsi verso di lui per divorarlo, appena dopo esser nato, “la sua grandezza fuggì da lui”. Infatti Prajapiti si sente indebolito dopo questa fuga, dopo che la grandezza gli è sfuggita. Cos’è questa grandezza? L’essere femminile che viveva in lui, la Parola, che lo abbandona. O meglio, esce da lui e gli parla. E Vac gli dice: “Offri!”. E mentre Prajapati offre, cioè sacrifica, si rende conto che è stato lui stesso a parlare.

“Quella voce era la sua grandezza che aveva parlato a lui”.

Quindi, come scrive Roberto Calasso in “Ardore”: “Appena si riconosce la propria voce in un essere separato, si crea un Doppio che dialoga per sempre con colui che dice Io”.

Prima di arrivare al ruolo della parola nei testi biblici bisogna passare per la mitologia greca, che solitamente ci rimanda l’archetipo di “chaos” a noi più noto. Omero dice che fu Oceano “l’origine degli dei” e “l’origine del tutto” che emerge dal caos. Ma Oceano stesso, divinità fluviale, dopo la crezione resta al suo posto come flusso, corrente, pur non essendo nemmeno davvero un luogo.  Per i cantori orfici, invece, la cosmogonia è un’altra. Ad apparire dal caos è la Notte, Nyx, una dea che intimoriva anche Zeus, secondo Omero. Era un uccello dalla ali nere che, fecondata dal vento, depose il suo uovo d’argento nell’oscurità. Dall’uovo nacque il figlio del vento, divinità dalle ali d’oro, Eros, dio dell’Amore noto anche come Protogonos, il progenitore, e Fanete, colui che mostra ciò che è nascosto nell’uovo d’argento: il mondo intero. Sopra vi è il Cielo, sotto, il globo terracqueo.

Caos, o Chaos, in greco antico, non significava originariamente confusione e mescolanza, ma piuttosto ciò che resta nell’uovo vuoto, anzi nell’uovo “spalancato” (il significato letterale di caos).

Per Esiodo è la Terra, Gea che emerge dal caos, che non è una divinità ma solo un vuoto “spalancarsi”. Nel mito pelasgico della creazione è Eurinome, Dea di Tutte le Cose, che appare dal caos, trovando il vuoto sotto i piedi divide il mare dal cielo e intreccia una danza sulle onde. Danzando seduce il Vento del Nord e da esso appare il serpente Ofione che si accoppia con lei. Eurinome depone il famoso Uovo Universale e da lì fuoriescono tutte le cose: sole, luna, pianeti, stelle, terra, monti, fiumi, alberi, erbe e creature viventi.

Secondo invece i miti filosofici prima vi furono le tenebre e dalle tenebre emerse il caos. Dall’unione di tenebre e caos nacquero la Notte, il Giorno, l’Erebo e l’Aria.

Cosa dice il più grande filoso del caos? Platone fa parlare Timeo nel Grande discorso Cosmologico. Timeo si interroga sulle cause, e prima ancora si chiede se cielo e mondo siano sempre esistiti o se l’Universo sia stato generato. Fu generato, azzarda Timeo, avendo postulato che tutto ciò che è visibile ha una causa, ed essendo visibile e percepibile ai sensi l’Universo, anch’esso deve avere una causa e quindi un Artefice, un Demiurgo. Dal caos il Demiurgo crea l’Universo, a sua immagine e somiglianza, bello e buono, poiché, dice Timeo, “non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo”.

La parola che emerge dal caos, per Platone, è “buono”.

La Bibbia ci offre un’interpretazione più semplice del rapporto tra Caos e Parole. “Nel principio Dio creò il cielo e la terra – dice la Genesi descrivendo la Creazione – Ma la Terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla superficie dell’Oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque.

Dio allora ordinò: “Vi sia luce”. E vi fu luce”.

Ecco Fiat Lux. Incredibile, ma la prima parola pronunciata da Dio per mettere ordine nel caos è stata: “Fiat” (cosa che lascia sicuramente perplessi gli operai della Mirafiori).

Non è un gesto e nemmeno un pensiero, l’agente dell’Ordine nella Creazione: è una parola.

Ed è quella stessa parola, ora divenuta lingua, che il Dio Cristiano, o meglio il Dio pre-cristiano dell’Antico Testamento ebraico vede come minaccia tra i discendenti di Sem, Cam e Iafet.

Quando questi discendenti si stabiliscono a Sennaar e costruiscono una torre “la cui cima sia nei cieli” Dio interviene vedendo “un solo popolo e un labbro solo è per tutti loro,” così dice Dio, preoccupato da questa Parola che unisce i popoli. “Ormai tutto ciò che hanno meditato di fare non sarà loro impossibile” dice ancora Dio nella Genesi (11,3). E allora? “Orsù, discendiamo e confondiamo laggiù il loro labbro…”. Per mettere fine all’unificazione della Parole, Dio riporta il caos.

Così, i Sennaariani si confondono, non si capiscono più, torna il caos attraverso la confusione delle parole (e continua fino a oggi).

Dio è salvo. I cieli inoppugnabili. Anche se non per molto.

E la città stessa cambia nome. “Per questo il suo nome fu detto Babele” o Babel che deriva dall’ebraico balal – confondere, anche se Babel significa in realtà “Porta di Dio”. Una porta chiusa da Dio con la confusione dei linguaggi per evitare d’essere raggiunto.

“Dio,” dicono le note alla Bibbia delle edizioni Paoline, “vuole l’unità dell’umanità da lui creata, ma non vuole l’uniformità nell’oppressione” come quella dei Babilonesi che tentavano di unire diversi popoli sotto un’unica lingua.

Cosa dice invece il Corano a proposito? Dalla sura della Vacca in poi il Corano è un inno a sé stesso, all’importanza del libro stesso e della fede che propugna, è un canto alla rilevanza e centralità dell’invocazione del nome di Dio. Il Corano è la Parola. Ma in quanto al Caos, il Corano si richiama ad Abramo, a Mosè ed è quindi figlio di quella mitologia e di quella genesi biblica di cui abbiamo appena detto.

In quella Bibbia c’è un testo che è scritto proprio da “colui che prende la parola,” forse le pagine più poetiche della Bibbia, un vero poema ebraico, l’Ecclesiaste o Qohelet. E cosa dice colui che prende la parola? Che tutto è Caos. Ecco di nuovo la parola che crea il caos, descrivendolo, nell’ispirata traduzione di Ceronetti:

“Fumo di fumi

Tutto non è che fumo

C’è un guadagno per l’uomo

In tutto lo sforzo suo che fa

Penando sotto il sole?”

No, sembra dire Qohelet: i bimbi nascono e poi “vanno via. E da sempre la terra è là”. Il sole si leva e tramonta, i venti girano da sud a nord, anzi il vento “altro non fa che giri,” mentre i fiumi continuano a versarsi in un mare che mai si riempie. Nulla ha un fine, tutto è circolare.

“Ogni sarà già fu

E il si farà fu fatto

Non si dà sotto il sole

La novità”

Le parole.

Si dice che le parole portino ordine nel Caos.

Qui, in queste parole che state leggendo, si dice invece che le parole sono il Caos, in quanto lo definiscono.

Torniamo all’idea originaria dell’esattezza come antitesi del caos, e per la precisione, all’esattezza del linguaggio su cui ragiona Italo Calvino nelle “Lezioni Americane” e che dà il titolo al Terzo capitolo di quel libro.

“Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazinone” a questo anela Calvino. Ma vede anche un’epidemia (il caos) esplodere nel linguaggio e individua nella letteratura la matrice degli anticorpi per contrastare l’espandersi di quella che chiama “peste del linguaggio”: il Caos di Babel, la porta di Dio invasa dalla confusione dei significati.

Oltre alla malattia insita nell’uso delle parole, al caos contribuiscono anche le immagini, o meglio quello che Calvino descrive come una nuvola d’immagini che “si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria”.

Calvino individua l’inconsistenza del mondo stesso, in tutto ciò. La perdita di forma colpisce tutto e Calvino cercava di opporvi l’unica difesa che riusciva a concepire: un’idea di letteratura.

L’imprecisione come radice del Caos. Cioè il contrario di quanto sostiene Giacomo Leopardi secondo il quale il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso. Parole generatrici di Caos. Poetico Caos, ma pur sempre Caos.

Nello Zibaldone, Leopardi elenca le situazioni propizie alla stato d’animo dell’”indefinito” e parla di “quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre.”

Eppure, come ricorda Calvino, nessuno è più preciso di Leopardi nel definire i contorni e nel descrivere la vaghezza.

Paul Valery e il suo Monsieur Teste sono un altro esempio di descrizioni specifiche delle forme geometriche di una sensazione caotica come il dolore: “zone dolorose, anelli, poli, pennacchi di dolore” che tuttavia lo lasciano incerto, o meglio, per essere più esatti “riscontro in me stesso qualcosa di confuso e di diffuso.” Ecco ancora il Caos che vince sulle parole.

E così l’universo si disfa, ricorda Calvino “precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito, in una immoblitià minerale, ma vivamente come un organismo”.

Cioè la poesia come grande nemica del caso pur essendone figlia e conscia del fatto che il caos avrò sempre partita vinta.

Caos è parole. Per questo ha sempre la meglio su di esse.

E’ forse perché dal caos veniamo prima di nascere e al caos torniamo prima di morire?

Dubbio mistico. Quel caos potrebbe essere il buddhistico “vuoto”, oppure il vedico “pieno”.

Essendo oltre la nostra possibilità di descrizione, resta mistero.

Ma in quella barriera tra il descrivibile e l’indescrivibile le parole si sfibrano.

Ecco allora che si approda alla poesia, dove senso e caos si mescolano, terreno di frontiera tra queste due idee.

“In principio era il verbo.

Alla fine, il silenzio.

Finalmente.”

(“Chiacchiere metafisiche” – dalla raccolta di poesie “Lungo le scale del mio smarrimento” C.Pizzati)

(Carlo Pizzati© 2011)

Bending Over Backwards by Carlo Pizzati

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Bending over Backwards is a memoir and a travelogue, of places and experiences that are literal as well as of spiritual significance. It’s also an exploration of the significance of technology in a spiritual quest and whether we can justify its use.

The book starts with the mention of a backache, chronic and all-pervading. It is for a cure that the journeys and fascinating experiences come about, ending in India.

Being an Indian, reading about India from a foreigner’s perspective seemed like an incomplete experience at best, whenever I did read such an account.

Though, a disclaimer here that Bending Over Backwards is not an India-centric experience only. In fact, the author’s journeys and esoteric cure seeking had me enthralled.

It’s quite entertaining to see different places, right from Italy to US to Argentina to India. As the writer gets on flights for yet another stop on his search for…

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