Woody Allen in fila al cinema con Diane Keaton in “Annie Hall” è infastidito dalle sbruffoneggiate pseudo-intellettuali di un nevrotico newyorkese che dietro di loro parla di Marshall McLuhan.
“Cosa non darei per avere una grande calza piena di merda di cavallo per darla in testa a uno così!”
“Ehi, aspetta, questo è un paese libero, posso dire quello che voglio!” si lagna l’intellettuale.
“Ma tu non capisci niente di Marshall McLuhan!”
“Capita che io insegni un corso alla Columbia University che si chiama ‘TV, media e cultura’ quindi penso che la mia visione sul signor McLuhan abbia un certo peso…”
“Davvero? Davvero? Perché capita che io abbia il signor McLuhan proprio qui, e allora, e allora, lascia che…lascia che…” Woody Allen infila la mano dietro un cartellone pubblicitario e ne estrae un elegante signore in cravatta scura e giacca color crema: Marshall McLuhan.
“Ho sentito quel che ha detto. Lei non sa nulla del mio lavoro. Quel che lei dice vorrebbe dimostrare che il mio intero sofisma era sbagliato. Che lei sia riuscito a farsi assumere per insegnare quel corso è strabiliante.”
Woody Allen guarda il pubblico, sconsolato, e dice: “Se solo la vita potesse essere così…”
Era il 1977 e la parabola di Marshall McLuhan stava per toccare il fondo, nonostante gli sforzi di Woody Allen e di altri. Protestante convertito al cattolicesimo, forse per questo sfornò sei figli che dovette poi mantenere e quindi, già accademico di successo mondiale, stella internazionale del suo Villaggio Globale, già meme con “il mezzo è il messaggio,” si dovette far assumere come consulente e conferenziere proprio per quelle multinazionali come l’IBM e la telefonica AT & T da cui metteva in guardia il mondo. Il famoso “punto di appoggio” da cui Archimede avrebbe sollevato la Terra con la sua leva “è stato affittato alle società private,” aveva previsto.
Morì a Capodanno del 1980, alba di un decennio che non fu molto rispettoso del suo genio. Ebbe un ictus e il suo cervello, che secondo la biografia di Douglas Copeland era irrorato da due arterie invece che una, ne risentì, essendo già sopravvissuto a un tumore benigno. Durante le ultime lezioni universitarie si bloccava a metà frase e poteva restare così, nel silenzio, anche per parecchi minuti prima di riprendere la frase esattamente dove l’aveva lasciata e completare il ragionamento.
Eppure dopo che negli anni ’80 e ’90 il suo pensiero fu declinato alla francese da Lacan, Baudrillard e Derrida, sopravvivendo anche agli attacchi di Umberto Eco e Regis Debray, ecco che la realtà dimostra che quest’uomo ha saputo fotografare, molto prima che iniziasse ad accadere, la trasformazione che stiamo vivendo oggi. Come spesso capita agli artisti, era troppo in anticipo. O, come rapperebbe er Piotta, era “troppo avanti”.
Si può sperare anche che fosse in anticipo sulla sua idea di sviluppo tecnologico come chiave di affrancamento e liberazione dai vincoli del lavoro. McLuhan spiegava che, paradossalmente, l’automazione rende lo studio delle discipline umanistiche ancora più importante. Alle macchine ciò che è meccanico, agli umani ciò che è intuito. Nel nostro nuovo Medioevo pervaso dalla tirannia degli ingegneri informatici, questo ancora non si è realizzato del tutto. Ma come le macchine e le automobili hanno liberato dalla servitù i cavalli, così l’automazione libererà l’umanità.
“Gli uomini sono diventati all’improvviso nomadi raccoglitori di informazioni, nomadi come non mai, informati come non mai, liberi dalla frammentaria specializzazione come non mai, ma anche coinvolti nel processo sociale come mai prima; poiché con l’elettricità noi estendiamo il nostro sistema nervoso globalmente, interrelazionando subito ogni esperienza umana.” All’epoca non solo non esisteva WhatsApp, Viber, Skype, Facebook e Twitter: non esisteva nemmeno il World Wide Web, e il suo precursore del Pentagono, Arpanet, sarebbe nato solo cinque anni dopo.
Aveva anche capito che nei decenni successivi saremmo stati costretti a partecipare perché “l’implosione elettrica spinge all’impegno e alla partecipazione.” E alla libertà.
La profezia di 50 anni fa immaginava una società in cui le macchine al servizio dell’uomo gli avrebbero consegnato la libertà di sviluppare la propria tendenza artistica.
Ecco, l’arte. Sperava, questo intellettuale canadese dal pensiero secco e freddo come i paesaggi della sua Winnipeg, nel Manitoba, che la “società elettrica” avrebbe portato all’autonomia artistica.
Per lui, l’arte era “un’informazione esatta su come riorganizzare la propria psiche per anticipare il successivo colpo generato dalle nostre facoltà estese.” Tradotto (a rischio di farsi prendere a colpi di calza piena di merda di cavallo): liberati dalla schiavitù del lavoro automatizzato grazie all’avvento delle macchine, l’uomo si sarebbe potuto dedicare più liberamente a interpretare i cambiamenti storici cui partecipava. E’ andata così? Non proprio. O non ancora? Le idee di McLuhan erano “indagini,” “mosaici,” inviti a pensare ai media, non assiomi.
“Nell’era elettrica indossiamo l’intera umanità come fosse la nostra pelle.” Queste parole, da “Understanding Media,” nel 1964 dovevano esser sembrate solo un bel verso poetico. Oggi sono chiarissime.
La narcosi nascosta etimologicamente nel narcisismo induce l’uomo a diventare il servomeccanismo della propria immagine estesa e ripetuta. In questa sonnolenza nemmeno le frammentate grida della ninfa Eco arrivano a Narciso che è diventato ormai un sistema chiuso. Familiare? Guardate chiunque vi stia accanto risucchiato da uno schermo e capirete.
“L’uomo è l’organo sessuale delle macchine, così come le api lo sono delle piante.” E questo ci porta al fatidico “il mezzo è il messaggio.” “Il contenuto è la grattata, il mezzo di comunicazione è il prurito.” “Il contenuto è il succulente pezzo di carne portato dal ladro per distrarre il cane da guarda della mente.” Ovvero: “il messaggio di ogni mezzo o tecnologia è il cambiamento apportato alla scala, ritmo o schema che viene introdotto nelle cose umane.” O, meglio ancora: “Tutto ciò che accade alla luce di una lampada elettrica o di un neon è il ‘contenuto’ di quella luce elettrica: non esisterebbe senza di essa.” Non importa cosa fai, cosa metti su Internet o come lo usi, appena lo usi tu sei il suo contenuto, ed è Internet il messaggio.
The Mechanical Bride (’51), studio critico sulla cultura pop; The Gutenberg Galaxy (’62) sulla crescita dell’individualismo nell’uomo tipografico e in cui si descrive il famoso Villaggio Globale sono culminati poi in Understanding Media da cui nascono le idee di mezzi caldi e freddi, l’età dell’ansia, la scomparsa del linguaggio nel futuro tecnologico (lo vediamo ora frammentarsi in 140 caratteri), la fotografia che rende gli essere umani degli oggetti e poi l’importante concetto che gli spazi pubblicitari sono buone notizie in un mare di brutte notizie (un segreto ancora ben celato da media ed editori).
Aveva visto bene su musica, cinema, radio, tv e armi e persino sui videogiochi, ora punta d’avanguardia della colonizzazione inversa della tecnologia nelle menti. “Il futuro del lavoro consiste nel guadagnarsi da vivere nell’era dell’automazione,” lo scriveva 50 anni fa. Ciao ciao Eco, ciao ciao Debray e tutti i suoi nemici.
Una delle sue barzellette preferite spiega sia il suo sense of humour, sia ciò che cercava di dire con le sue teorie. E forse può esser vista anche come una presa in giro dei suoi detrattori. La storiella descrive due indiani Navajo che si stanno facendo una chiacchierata da un capo all’altro dell’Arizona con segnali di fumo. A metà della conversazione la Commissione per l’energia atomica fa detonare una bomba nucleare. Quando il nuvolone a fungo si disperde, il primo indiano manda all’altro un segnale di fumo che dice: “Mannaggia, magari l’avessi detto io!”
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(pubblicato a pagina 9 su il Garantista il 30 agosto 2014 per la rubrica lo Scaffale)
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