Thomas Bernhard, lo scrittore maledetto che ci servirebbe ora (di Carlo Pizzati)

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imagesEsistono scrittori che nella loro schiacciante grandezza rovinano innumerevoli esordienti. Sono autori il cui stile è così magnetico che genera file di imitatori i quali, non riuscendo mai ad avvicinarsi al loro modello, resteranno per sempre impastati nell’acredine. Ma non un’acredine sufficiente a far di loro dei Thomas Bernhard. Tra i responsabili più noti di quest’inconsapevole reato letterario troviamo il solito Gabriel Garcia Marquez, il volteggiante Milan Kundera, l’inarrivabile Jorge Luis Borges e, nella provincia chiamata Italia, Italo Calvino. Oggi mi dicono che esistono anche gli imitatori di Paulo Coelho.

Pochi autori, però, sono stati e sono pericolosi come Thomas Bernhard. Nei “favolosi” anni ’80 già s’insinuava la moda di leggere i suoi ultimi romanzi, a detta della critica i più maturi e riusciti. Quell’ipnotizzante monologare senza andare a capo e quell’Austro-patia, in cui bastava sostituire la propria nazione d’appartenenza, apparvero subito come una potente, dilaniante liberazione. Bernhard è un libertador della coscienza. Soprattutto della coscienza borghese che criticava. Quella che segue le mode letterarie, ad esempio. Come Fellini viene adorato dalla borghesia post-bellica democristiana perché ne indica con garbo sognante difetti e contraddizioni, come Nanni Moretti è idolatrato dalla borghesia conservatrice finta-stracciona di sinistra perché ne scimmiotta i tic, così il Grande Austriaco ci regala tutto il livore che dentro di noi proviamo inevitabilmente nei contesti soffocanti delle convenzioni sociali, soprattutto se ci si trova nell’umiliante ambito politico-giornalistico-artistico-culturale ben conosciuto ovunque.

Thomas Bernhard su il Garantista

Quanto avrebbe odiato queste parole, Thomas Bernhard. Quanto facilmente avrebbe distrutto con brio il suo autore, con la precisione di un sguardo impietoso e quindi lucido. E allora stuzzichiamone la memoria. L’insulto più grande per Thomas Bernhard è di ricordarne la nascita, il 9 febbraio del 1931, a Heerlen, in Olanda. “Odio i libri e gli articoli che iniziano con una data di nascita. Odio in assoluto libri e articoli che adottano un approccio biografico e cronologico; ciò mi appare di gran cattivo gusto e nel contempo la procedura meno intellettuale che ci sia.”

Per essere disgustosamente cronologici, la prima cosa da sapere è che il cognome di Bernhard, come ricorda Gitta Honegger nella sua ben argomentata biografia, fu il primo incidente che l’allontanò dalla famiglia, invece d’avvicinarlo. Il vero nonno di Thomas era uno scrittore di nome Johannes Fraumbichler. La nonna in realtà era sposata a Karl Bernhard, ma ebbe da Fraumbichler una figlia cui diede il cognome del marito cornuto e legittimo. Herta Bernhard, già lei figlia illegittima, va a lavorare in Olanda come donna delle pulizie e lì, nel 1931, partorisce Nicolaas Thomas Bernhard: figlio illegittimo di un falegname che non lo riconosce e che fugge in Germania, dove nel 1940 si suiciderà per avvelenamento a gas. Nel ’36 la madre si sposa ed ha due figli. Thomas resta l’unico in famiglia con il cognome della madre. Il patrigno si rifiuta di adottarlo e di dargli il suo cognome. Il conflitto con la madre si fa intenso. Viene spedito in un collegio per “bambini difficili” in Turingia. Poi in un ostello cattolico per ragazzi a Salisburgo.

Non sorprende che, circondato da tanto astio, guardato in cagnesco come “il bastardo,” per Bernhard il centro della famiglia resti sempre il vero nonno, quel sognatore, anarchico e bisessuale Johannes Fraumbichler che passò la vita cercando e fallendo nei suoi tentativi di diventare un grande scrittore, nonostante un primo e unico successo. Gli anni, pochi, in sua compagnia sono paradisiaci nella memoria di Bernhard.

Quasi tutti i suoi scritti, come sostiene Tim Parks nel NY Review of Books, hanno come fulcro un personaggio mono-maniacale ossessionato dal trionfo che ricorda Fraumbichler e su cui Bernhard modella il proprio carattere. Che sia la perfezione intellettuale di “Il nipote di Wittgestein” o i fallimenti paralizzanti della “Fornace,” il personaggio centrale è sempre una catastrofe per chi lo circonda e alla fine per sé stesso.

Thomas lascia la scuola a 16 anni per fare il garzone in una bottega di alimentari, ma prendendo lezioni private di canto (forse proprio ispirato dall’afflato artistico del nonno). I sogni da tenore soffocano a 18 anni in una tubercolosi curata con due anni d’ospedale. Mentre Bernhard sfiora la morte, sia il nonno idolatrato che la madre periscono davvero. Ciò lo sprofonda in un lunga depressione dalla quale emerge deciso a riconquistare pienamente la salute. E il mondo. Con l’aiuto di una nuova amica che ha 36 anni più di lui.arton1720-8d51a

Nelle sue passeggiate notturne non autorizzate dall’ospedale, conosce infatti la sua protettrice che diventerà suo pigmalione: Hedwig Stavianicek, vedova ed ereditiera di una famosa marca di cioccolato. La milionaria introduce il fragile, determinato e brufoloso 19enne alla più alta società austriaca. Inizia così una collaborazione come critico culturale con due giornali di Salisburgo e diventa subito una vera spina nel fianco di una società che rinnegava o nascondeva il proprio ruolo nell’Olocausto. Con una critica teatrale al limite dell’isterico, si conquista la sua prima causa per diffamazione e così la fama: ora i giornali parlano di lui. Abbandonato il giornalismo culturale, esplora la recitazione teatrale e scopre il suo ruolo migliore: il vecchio brontolone arrabbiato. Ora è perfettamente integrato nell’avanguardia austriaca. Seduce uomini e donne (non sessualmente, a quanto risulta), ma causa turbolenze emotive di qua e di là, riparando dalla “zietta” Stavianicek quando le cose si mettono male. Odia l’Austria, ma è in questo perfettamente austriaco (uno dei pochi punti in comune tra Austria e Italia). Alcuni concittadini lo accusano d’essere un Nestbeschmutzer, uno “sporca-nido.”

“Il passato dell’Impero Asburgico è ciò che ci forma. Nel mio caso è forse più visibile che in altri. Si manifesta in una sorta di odio-amore per l’Austria. Questa è la chiave di tutto ciò che scrivo.”

Ma Bernhard è limpidamente consapevole del fatto che la scrittura non ha il potere di alterare la società che critica senza rimorsi. Al contrario, l’artista è coinvolto nello show da baraccone. “L’immaginazione è un’espressione del disordine, dev’essere così” dice il pittore in “Gelo.”

Mi limito a trascrivere tre incipit di suoi romanzi, il cui stile non ha bisogno di ulteriori lodi: “Nel millenovecentosessantasette, nel Padiglione Hermann dell’Altura Baumgartner, una suora che vi svolgeva con solerzia infaticabile il suo lavoro di infermiera mi depose sul letto Perturbamento, il libro fresco di stampa che avevo scritto un anno prima a Bruxelles in rue de la Croix 60, ma io non ebbi neanche la forza di prendere in mano quel libro essendomi appena svegliato, erano passati solo pochi minuti, da un’anestesia totale durata parecchie ore che mi era stata praticata dagli stessi medici che mi avevano aperto il collo in modo da poter estrarre dalla gabbia toracica un tumore della grandezza di un pugno.” (Il nipote di Wittgenstein). “Un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione. Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.” (Il Soccombente). “Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un’ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza. Grafenhof era una parola funesta, a Grafenhof dominavano in maniera esclusiva e con perfetta immunità il primario e il suo assistente e l’assistente di quest’ultimo, nonché le condizioni, tremende per un giovane come me, di un pubblico sanatorio per turbercolotici.” (Il Freddo).

82b6545c1a873c83a915ba4174e30d67I suoi libri hanno un successo internazionale.  Piace sia come autore teatrale che come romanziere e autore di racconti brevi. È prolifico e finisce in quella contraddizione creativa che lo caratterizza tra il profondo bisogno di esprimersi e l’ossessiva pulsione verso un isolamento supremo. È questa opposizione di poli a generare una delle voci più memorabili della letteratura europea.

Finisce così isolato dietro ad alte siepi, in un vecchio casolare di campagna nella frazione di Obernathal, in Austria. Dall’altra parte scorre la vita del villaggio della provincia, e gli adulti lo usano simbolicamente come spauracchio per i bambini. Lui ride amaro dell’inutilità di quel che scrive: “Perché applaudono?” si chiede, guardando i borghesi godere dei suoi spettacoli contro la borghesia, ma anche contro l’intellighenzia, contro tutto. Nell’89, il 12 febbraio, pochi giorni dopo il 58esimo compleanno, sapendo che doveva morire per malattie ai polmoni e al cuore, si uccide con un’overdose di medicinali. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte.”

Leggerlo dà l’intensa impressione di riuscire ad assaporare, brevemente racchiusi nello spazio artificiale di performance letterarie uniche, un vero quadro delle contraddizioni che guidano le nostre vite. Il mondo è orrendo, le ruminazioni della mente che descrive quest’orrore non lasciano spazio ad alcuno ottimismo, ma i meccanismi inventati per esprimere il disastro in cui viviamo è sempre esilarante.

In questo sta il suo genio. Ascolti il vecchietto malmostoso decomporre tutto ciò che vedi e conosci, facendo scomparire, filo per filo, la grande “Matrix” che ci circonda.

Poi “l’agile salto improvviso del poeta-filosofo” (I. Calvino su Cavalcanti) ti fa esplodere in una risata.

Sul mondo, su noi stessi, sulla grande Commedia.

(pubblicato il 24 gennaio 2015 sulla pagina di Cultura de il Garantista)

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Perché i giovani (disoccupati) devono leggere Turgenev (di Carlo Pizzati)

Ho due nipoti disoccupati di 21 e 23 anni. Non sono tipi da università e non hanno lavoro. Normale. Il tasso di disoccupazione giovanile è oltre il 40 per cento, se non sbaglio. Mi sono spesso ritrovato, negli anni, nel ruolo scomodo dello zio che dispensa consigli. Orrore. Riesce davvero difficile dare consigli pratici in questa realtà, ma l’altro giorno mi sono reso conto, forse per disperazione, d’essere passato ai consigli poco pratici.

A uno dei nipoti in cerca di lavoro e di una direzione nella vita ho detto: “Leggi ‘Rudin’ di Turgenev. Ti spiegherà l’importanza di prendersi in pugno la propria vita. No, non è un manuale di auto-aiuto. È letteratura russa.”

Non credo che lo leggerà, ma rendo pubblica qui la motivazione di questo consiglio esteso a tutti i figli degli anni ’90, alcuni dei quali incontro due volte la settimana, questo semestre, in un’aula universitaria.

Perché “Rudin”? In realtà Rudin finisce un po’ male. Anzi, il suo afflato verso l’azione, dopo una vita da inerte e ciarliero “uomo superfluo” lo porta a un epilogo tragicomico. Ecco, mi hai detto il finale, spoiler alert! spoiler alert! Tranquillo, nipote, l’importanza di leggere “Rudin,” il primo romanzo di Ivan Sergeevic Turgenev, ha poco a che vedere con “il plot.” Non è una serie tv.

Turgenev nacque il 9 novembre del 1818 in una Russia che ci ha regalato una delle più intense e utili letterature del mondo. Salvò dai debiti di gioco Tolstoj e aiutò Dostoevskij in frangenti simili. Poi si fece condannare a un mese di carcere per pubblicato a sue spese e contro il veto della censura, un ispirato necrologio per Gogol. Idolatria, fu l’accusa, per aver osato dire che bisognava chiamarlo “Grande Gogol,” come uno zar.

Il suo “Rudin” è un Romanzo che si dice rappresenti la generazione dei ventenni degli anni ’40 di due secoli fa. Cos’ha dunque tutto ciò a che vedere con i nostri ragazzi nati negli anni ’90, i cosiddetti Millennials? “Rudin” parla di carattere, di personalità, di tendenze umane che sono atemporali e nelle quali è ancora possibile riconoscersi (a tutte le età).

La morale di questa novella, come Turgenev la definì, è che ciò che sconta nella vita non è quel che conquisti, ma come vivi. Beh, la morale più semplicistica.

“Rudin” va in realtà molto più a fondo. I fatti di cui parla si svolgono tra la Guerra di Crimea e le rivoluzioni europee del 1848. Rudin è un trentenne con i vestiti troppo stretti, come se ci fosse cresciuto dentro (i corsi e i ricorsi della moda, sorella della morte, figlia della caducità, come scriveva il Leopardi!). Ha la lingua svelta e acuta, ma nonostante la sua eloquenza non riesce a realizzare ciò di cui parla. La scena chiave per capirlo è quando Natasha, figlia della padrone di casa dov’è ospite da mesi, gli rivela che la madre è contraria al loro nascente amore. Rudin, invece di combattere romanticamente per la relazione, come vorrebbe Natasha, le dice mesto mesto che devono “sottomettersi al destino” e obbedire a mammà. Natasha lo scarica subito, giustamente. E sposa un altro.

Rudin è “quasi un Titano a parole, ma un pigmeo nei fatti.” Quanti ragazzi possono riconoscersi in questa definizione? L’amico d’infanzia Leznehv gli si contrappone come l’uomo normale, senza grandi ambizioni. Noiosissimo. Un petit-beurgeois. Che infatti si sposa, fa soldi, conduce un’esistenza senza scosse: un uomo da bruciare, per i sorcini in ascolto.

Invece Rudin, quest’uomo superfluo, loquace e introspettivo, rappresenta il prototipo amletico che Turgenev sviluppa in un importante discorso tenuto nel 1860 su “Amleto e Don Chisciotte.” L’autore russo identifico in queste icone letterarie due tendenze caratteriali presenti in tutti noi. L’egoistico Amleto, troppo assorto nella riflessione per agire, e l’entusiasta e spensierato Don Chisciotte che è sempre pronto all’azione. Anche se insensata.

Sì, Don Chisciotte è il coraggioso rivoluzionario che rischia di diventare un “militonto,” un pazzo scatenato che vede draghi nei mulini a vento (gombloddisda, per capirci). Ha fiducia nella Verità e in qualcosa di Supremo. È un tipo sincero, guidato dalla forza di volontà. È comico, ma molto amato.

Amleto è la sua antitesi. Dovrebbe vendicare l’uccisione del padre, ma è roso dal dubbio, dall’inazione. Uccide lo zio quasi per errore. È troppo analitico per auto-immolarsi. O per rischiare. È come Rudin. Uno dei suoi pochi meriti è quello di riuscire a educare gli altri. Con il pensiero, non con l’esempio.

Così Rudin trasforma la sua vita. Decide, dopo aver abbandonato Natasha e la villa dov’era ospite, di agire. Un Amleto che vuol diventare un Don Chisciotte. Prova ad amministrare un podere per conto di un amico, tenta di drenare un fiume per renderlo navigabile, diventa insegnante. Per un po’. Prova con tutta la sua forza a “prendersi in pugno.” Cambiare: l’oppio di questa realtà. Il problema è che è troppo Amleto, per cui fa una fine donchisciottesca, senza aver trovato una giusta misura tra le due pulsioni. Per questo credo che Rudin sia una buona lettura per scardinare gli Amleti e per avvertire i Don Chisciotte.

Si dice che “i giovani non leggono” (tranne libri per “gggiovani,” naturalmente). Chissà se è davvero così. Entrare in una storia profondamente, lasciarsi coinvolgere, identificarsi, è un primo passo per salvarsi. Quando i nostri meccanismi sono così aderenti a quelli della narrazione, è più probabile che avvenga una mutazione, che nasca una nuova idea, un nuovo progetto. Così come l’eroe si trasforma, possiamo farlo noi.

Funziona anche così la magia alchemica della letteratura.

Può servire a capire come un Amleto può diventare un po’ più Don Chisciotte. O viceversa.

Senza farsi ammazzare sulle barricate della vita.

(pubblicato sulla pagina Cultura de il Garantista il 19 ottobre 2014)

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“Liberi dalla schiavitù del lavoro” apologia di Marshall McLuhan di Carlo Pizzati

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Woody Allen in fila al cinema con Diane Keaton in “Annie Hall” è infastidito dalle sbruffoneggiate pseudo-intellettuali di un nevrotico newyorkese che dietro di loro parla di Marshall McLuhan.

“Cosa non darei per avere una grande calza piena di merda di cavallo per darla in testa a uno così!”

“Ehi, aspetta, questo è un paese libero, posso dire quello che voglio!” si lagna l’intellettuale.

“Ma tu non capisci niente di Marshall McLuhan!”

“Capita che io insegni un corso alla Columbia University che si chiama ‘TV, media e cultura’ quindi penso che la mia visione sul signor McLuhan abbia un certo peso…”

“Davvero? Davvero? Perché capita che io abbia il signor McLuhan proprio qui, e allora, e allora, lascia che…lascia che…” Woody Allen infila la mano dietro un cartellone pubblicitario e ne estrae un elegante signore in cravatta scura e giacca color crema: Marshall McLuhan.

“Ho sentito quel che ha detto. Lei non sa nulla del mio lavoro. Quel che lei dice vorrebbe dimostrare che il mio intero sofisma era sbagliato. Che lei sia riuscito a farsi assumere per insegnare quel corso è strabiliante.”

Woody Allen guarda il pubblico, sconsolato, e dice: “Se solo la vita potesse essere così…”

woody-allen-marshall-mcluhan-thumb-350x233-37609Era il 1977 e la parabola di Marshall McLuhan stava per toccare il fondo, nonostante gli sforzi di Woody Allen e di altri. Protestante convertito al cattolicesimo, forse per questo sfornò sei figli che dovette poi mantenere e quindi, già accademico di successo mondiale, stella internazionale del suo Villaggio Globale, già meme con “il mezzo è il messaggio,” si dovette far assumere come consulente e conferenziere proprio per quelle multinazionali come l’IBM e la telefonica AT & T da cui metteva in guardia il mondo. Il famoso “punto di appoggio” da cui Archimede avrebbe sollevato la Terra con la sua leva “è stato affittato alle società private,” aveva previsto.

Morì a Capodanno del 1980, alba di un decennio che non fu molto rispettoso del suo genio. Ebbe un ictus e il suo cervello, che secondo la biografia di Douglas Copeland era irrorato da due arterie invece che una, ne risentì, essendo già sopravvissuto a un tumore benigno. Durante le ultime lezioni universitarie si bloccava a metà frase e poteva restare così, nel silenzio, anche per parecchi minuti prima di riprendere la frase esattamente dove l’aveva lasciata e completare il ragionamento.

Eppure dopo che negli anni ’80 e ’90 il suo pensiero fu declinato alla francese da Lacan, Baudrillard e Derrida, sopravvivendo anche agli attacchi di Umberto Eco e Regis Debray, ecco che la realtà dimostra che quest’uomo ha saputo fotografare, molto prima che iniziasse ad accadere, la trasformazione che stiamo vivendo oggi. Come spesso capita agli artisti, era troppo in anticipo. O, come rapperebbe er Piotta, era “troppo avanti”.

Si può sperare anche che fosse in anticipo sulla sua idea di sviluppo tecnologico come chiave di affrancamento e liberazione dai vincoli del lavoro. McLuhan spiegava che, paradossalmente, l’automazione rende lo studio delle discipline umanistiche ancora più importante. Alle macchine ciò che è meccanico, agli umani ciò che è intuito. Nel nostro nuovo Medioevo pervaso dalla tirannia degli ingegneri informatici, questo ancora non si è realizzato del tutto. Ma come le macchine e le automobili hanno liberato dalla servitù i cavalli, così l’automazione libererà l’umanità.

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“Gli uomini sono diventati all’improvviso nomadi raccoglitori di informazioni, nomadi come non mai, informati come non mai, liberi dalla frammentaria specializzazione come non mai, ma anche coinvolti nel processo sociale come mai prima; poiché con l’elettricità noi estendiamo il nostro sistema nervoso globalmente, interrelazionando  subito ogni esperienza umana.” All’epoca non solo non esisteva WhatsApp, Viber, Skype, Facebook e Twitter: non esisteva nemmeno il World Wide Web, e il suo precursore del Pentagono, Arpanet, sarebbe nato solo cinque anni dopo.

Aveva anche capito che nei decenni successivi saremmo stati costretti a partecipare perché “l’implosione elettrica spinge all’impegno e alla partecipazione.” E alla libertà.

La profezia di 50 anni fa immaginava una società in cui le macchine al servizio dell’uomo gli avrebbero consegnato la libertà di sviluppare la propria tendenza artistica.

Ecco, l’arte. Sperava, questo intellettuale canadese dal pensiero secco e freddo come i paesaggi della sua Winnipeg, nel Manitoba, che la “società elettrica” avrebbe portato all’autonomia artistica.

Per lui, l’arte era “un’informazione esatta su come riorganizzare la propria psiche per anticipare il successivo colpo generato dalle nostre facoltà estese.” Tradotto (a rischio di farsi prendere a colpi di calza piena di merda di cavallo): liberati dalla schiavitù del lavoro automatizzato grazie all’avvento delle macchine, l’uomo si sarebbe potuto dedicare più liberamente a interpretare i cambiamenti storici cui partecipava. E’ andata così? Non proprio. O non ancora? Le idee di McLuhan erano “indagini,” “mosaici,” inviti a pensare ai media, non assiomi.

WellAdjusted“Nell’era elettrica indossiamo l’intera umanità come fosse la nostra pelle.” Queste parole, da “Understanding Media,” nel 1964 dovevano esser sembrate solo un bel verso poetico. Oggi sono chiarissime.

La narcosi nascosta etimologicamente nel narcisismo induce l’uomo a diventare il servomeccanismo della propria immagine estesa e ripetuta. In questa sonnolenza nemmeno le frammentate grida della ninfa Eco arrivano a Narciso che è diventato ormai un sistema chiuso. Familiare? Guardate chiunque vi stia accanto risucchiato da uno schermo e capirete.

“L’uomo è l’organo sessuale delle macchine, così come le api lo sono delle piante.” E questo ci porta al fatidico “il mezzo è il messaggio.” “Il contenuto è la grattata, il mezzo di comunicazione è il prurito.” “Il contenuto è il succulente pezzo di carne portato dal ladro per distrarre il cane da guarda della mente.” Ovvero: “il messaggio di ogni mezzo o tecnologia è il cambiamento apportato alla scala, ritmo o schema che viene introdotto nelle cose umane.” O, meglio ancora: “Tutto ciò che accade alla luce di una lampada elettrica o di un neon è il ‘contenuto’ di quella luce elettrica: non esisterebbe senza di essa.” Non importa cosa fai, cosa metti su Internet o come lo usi, appena lo usi tu sei il suo contenuto, ed è Internet il messaggio.

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The Mechanical Bride (’51), studio critico sulla cultura pop; The Gutenberg Galaxy (’62) sulla crescita dell’individualismo nell’uomo tipografico e in cui si descrive il famoso Villaggio Globale sono culminati poi in Understanding Media da cui nascono le idee di mezzi caldi e freddi, l’età dell’ansia, la scomparsa del linguaggio nel futuro tecnologico (lo vediamo ora frammentarsi in 140 caratteri), la fotografia che rende gli essere umani degli oggetti e poi l’importante concetto che gli spazi pubblicitari sono buone notizie in un mare di brutte notizie (un segreto ancora ben celato da media ed editori).

Aveva visto bene su musica, cinema, radio, tv e armi e persino sui videogiochi, ora punta d’avanguardia della colonizzazione inversa della tecnologia nelle menti. “Il futuro del lavoro consiste nel guadagnarsi da vivere nell’era dell’automazione,” lo scriveva 50 anni fa. Ciao ciao Eco, ciao ciao Debray e tutti i suoi nemici.

Una delle sue barzellette preferite spiega sia il suo sense of humour, sia ciò che cercava di dire con le sue teorie. E forse può esser vista anche come una presa in giro dei suoi detrattori. La storiella descrive due indiani Navajo che si stanno facendo una chiacchierata da un capo all’altro dell’Arizona con segnali di fumo. A metà della conversazione la Commissione per l’energia atomica fa detonare una bomba nucleare. Quando il nuvolone a fungo si disperde, il primo indiano manda all’altro un segnale di fumo che dice: “Mannaggia, magari l’avessi detto io!”

follow on twitter: @carlopizzati

(pubblicato a pagina 9 su il Garantista il 30 agosto 2014 per la rubrica lo Scaffale)

McLuhan su il Garantista

Sulla passione per i polizieschi

Un amico straniero cresciuto tra Italia, Francia e Stati Uniti mi raccontava della sua passione per i polizieschi italiani.

“Il commissario Montalbano no,” diceva: “Camilleri lo leggo solo per le ricette.” Carlotto, Carofiglio, ecco, quelli gli piacevano e stava iniziando (buon per lui) a leggere Giorgio Scerbanenco, autore che dà il nome al più importante premio del genere. Gli sembrava, così diceva, che attraverso le inchieste poliziesche gli arrivasse un’immagine della realtà italiana: era un suo modo per ricollegarsi a un paese dove aveva abitato.con-la-figlia1

Nonostante questo, ammetteva che nessuno come una scrittrice di opere di letteratura e non di narrativa poliziesca, Elena Ferrante, riusciva a portarlo nel profondo di una realtà che appare come italiana, ma che sotto la cute nazionale rivela un racconto di umanità universale.

Purtroppo, tranne qualche romanzo che mi sono costretto a leggere per capire alcune cose sull’editoria italiana, non posso dire di essere un conoscitore né un fan del poliziesco, ma mi pare si stia cadendo in una trappola (questa sì degna di un giallo poliziesco) pensando, il naso tra le pagine di carta o sopra a uno schermo, che possa esistere un commissario o un investigatore privato che metta ordine nel caos.

Questo è il substrato di ogni poliziesco italiano in voga in questi anni, a quanto mi par di capire. Ed è questo il senso di sollievo e appagamento che immagino provino gli entusiasti lettori di questa forma di narrativa.

Molti anni fa un produttore americano mi voleva convincere a scrivere una sceneggiatura che raccontasse come Antonio Di Pietro fosse diventato l’erede di Falcone e Borsellino. Il film doveva narrare come la Mafia fosse riuscita a uccidere due eroi, espandendo di conseguenza il suo potere nel nord del paese e aumentando la sua presa sulla politica. Ma come poi (il bene trionfa!) il magistrato Di Pietro fosse riuscito a bloccare il malaffare anche al nord, incastrando politici concussi e imprenditori disonesti.

Quel film non si fece. Nemmeno nella realtà si è mai realizzata la visione di quel produttore americano, come mi pare di leggere sempre nelle cronache, nonostante gli arresti importanti, le condanne esemplari, personaggi famosi ora ufficialmente famigerati: non sembra che ci sia uno smantellamento del sistema, ma lo smottamento di una cosca o di una famiglia a vantaggio di un’altra, tutto qui. Si tratta di una sorta di debole riformismo, non di una rivoluzione di sistema che metta fine del malaffare endemico, aggettivo che viene da endemia: malattia infettiva costantemente presente, anche se in forma sporadica, in un determinato territorio.

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Per questo il lettore italiano che si diletta con quei libri il cui unico prurito intellettuale è scoprire “chi è stato?” si sta autoingannando senza rendersene conto: appaga un disagio tangibile affidando la propria fantasia a un uomo di legge che porta ordine nella confusione utilizzando la sua virtù, logica, deduzione e raziocinio.

Così facendo il lettore riporta nella realtà quest’illusione e questo spiegherebbe poi, confrontandosi con la caotica realtà, perché si moltiplichi con fervore quel senso di brontolona dissociazione per cui siamo noti in tutta Europa (addio Bel Paese ridanciano).

Per questo, dicevo al mio amico, preferisco rileggere Edgar Allan Poe, Raymond Chandler, l’ispettore Maigret di Simenon.

tumblr_lxd1y6Uuw61qzdxojo1_400Ma sopra a questi, provo piacere nel rileggere Friedrich Dürrenmatt, che tra le sue cupe valli svizzere non tenta di portare un finto ordine, ma lascia nell’anonimato il Mostro (il deviato, l’assassino, il Male) o, meglio ancora, porta a capire che quel Mostro, quel caos, quel vero Male è l’intero villaggio, la città, l’intera nazione.

 

 

 

(pubblicato anche su il Post)

Sulla non-morte del romanzo

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Il romanzo non è morto. Non è nemmeno nato, a dire il vero, in quanto il romanzo non è un essere vivente, siamo seri, ma è un mezzo per trasmettere il pensiero dell’autore ai suoi lettori. Per qualche secolo questa comunicazione è avvenuta tramite la scrittura e continua ad essere così.

Da quando è stato scoperto un nuovo metodo per consegnare i pensieri scritti di un autore ai suoi lettori ci si preoccupa del fatto che il veicolo utilizzato per questa “trasmissione del pensiero” possa alterare il modo in cui il contenuto viene recepito.

Attorno ai temi di questi due paragrafi si avvita da qualche anno un dibattito che riguarda la lettura. Recentemente sul “Guardian,” “New York Times” e “Corriere della Sera,” sono stati pubblicati (sia su carta che in Internet)  interventi stimolanti su questo tema.

Will Self ha firmato una analisi approfondita dal titolo “Il romanzo è morto (questa volta sul serio),” ovvero il testo di un suo intervento a Oxford pochi giorni fa. Dice Self che il romanzo come forma letteraria sarebbe dovuto morire con Hemingway e Fitzgerald e poi sepolto per sempre con “Finnegan’s Wake”. Invece si è trascinato per altri tre quarti di secolo. I bei romanzi usciti dopo l’epopea di James Joyce, scrive Self, altro non erano che zombi: “esempi di una forma d’arte non-morta che rifiutava d’estinguersi.”

Le menti gutenberghiane (per citare MacLuhan) di molti critici letterari sono rimaste bloccate nelle loro prigioni di carta. Però, nonostante ciò, nulla può sostituire la profondità dell’esperienza della lettura.

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Così, i cowboy del libro stampato da qualche anno si chiudono a cerchio attorno a biblioteche e tipografie, accerchiati dalle tribù degli e-book. Libri gratis per bambini, borse che con slogan supplichevoli implorano d’essere riempite di libri, scambi di libri, volumi abbandonati in luoghi pubblici per esser condivisi, club di lettori, presentazioni, fidelizzazione del lettore. E poi tutto un inno al fascino fisico del libro, il piacere dei polpastrelli sulla carta, gli effluvi profumati che escono da quelle pagine, descrizioni sensuali di un oggetto che sempre più spesso finisce a macerare in umidi garage e il cui valore commerciale tracolla del 95 per cento subito dopo l’acquisto. Misure disperate, dice Self.

Eppure qualche segnale fa sperare i cowboy nell’ “arrivano i nostri”: l’anno scorso negli Stati Uniti le vendite di libri a copertina rigida sono aumentate del 10 per cento, mentre le vendite di e-book sono calate del 3 per cento. Effetto snob o status symbol, forse. Ma il dato c’è.

La realtà, dice Self, è che i libri di carta sono destinati comunque ad essere una tecnologia minore, anche se il beau livre sopravviverà. Ma la domanda è: sopravviverà la vera lettura, il pensiero profondo?

L’avvento della nuova tecnologia di lettura non cambia il codice, cambia la mente. Il mezzo è il messaggio. Ci voleva Internet per resuscitare le verità di MacLuhan, il cui pensiero torna giustamente di moda.

Self pone l’unica domanda pratica che riguarda la battaglia tra libro stampato e ebook, tra lettura con concentrazione profonda contro lo skimming e il browsing della cosiddetta Nuova Intelligenza (basata su sinossi ed estratti, su Wikipedia e Google):  i lettori saranno in grado di disattivare volontariamente il collegamento internet dei lettori digitali quando sono assorti in un romanzo o saggio?

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Quattro anni fa, recensendo per il Sole 24 Ore un saggio di Nicholas Carr su quello che Internet sta facendo ai nostri cervelli avevo già proposto questa semplicissima seppur virtuosa soluzione. Mi ero imposto di leggere proprio su un lettore digitale un libro la cui tesi è contraria alla lettura degli ebook. Interruppi la lettura (in ebook) di “Anna Karenina” per leggere il saggio “The Shallows” di Carr, finito il quale completai tranquillamente il capolavoro di Tolstoj.

Carr descriveva l’avere un cervello letterario come la capacità di mantenere l’attenzione su parole, idee ed emozioni che fluiscono dentro di noi. Il lettore diventa il libro. Esce da questo genere di lettura trasformato (solo se il libro in questione è in grado di arrivare a questo, naturalmente). Ma questo è possibile solo con la carta.

Perché una volta che ci si è abituati al multitasking il nostro cervello perde la capacità di concentrarsi a lungo, sostiene Carr. Ma a me bastò spegnere la connessione wi-fi del lettore digitale per consentirmi di utilizzare l’ebook come un libro che mi comunicò, senza distrazioni, un contenuto profondo che 4 anni dopo ricordo ancora.

È quel Pensiero di cui scrive anche David Brooks sul “New York Times” in un editoriale intitolato “Love Story”  rievocando una conversazione letteraria durata una notte intera tra Isaiah Berlin e la poetessa Anna Akhmatova. Lei recitava il “Don Juan” di Byron facendo piangere Berlin, poi discutevano delle differenze tra Pushkin e Chekov. Berlin dichiarava di preferire la leggerezza dell’intelligenza di Turgenev, l’Akhmatova preferiva l’intensità oscura di Dostoevskij.

Mentre la poetessa confessava la sua solitudine e le sue passioni, Berlin non riuscì nemmeno ad interrompere l’incantesimo di quel dialogo letterario per andare un attimo al bagno.

“Berlin e l’Akhmatova,” commenta David Brooks, “furono in grado di creare quel dialogo che cambiò la loro vita grazie al fatto che avevano entrambi assorbito delle buone letture. Erano spiritualmente ambiziosi. Avevano in comune il linguaggio della letteratura, scritta da geni che ci capiscono meglio di quanto noi capiamo noi stessi.”

Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” ha scritto un testo stimolante e pieno di speranze in questo senso. Ricordando l’esortazione foscoliana “O italiani, vi esorto alle storie” sostiene che non è troppo tardi, perché attraverso la lettura dei grandi romanzi europei si può “aprire quello scrigno d’argento in cui ritrovare sé stessi.” Che poi Di Stefano possa pubblicare questo genere di ragionamento soprattutto in funzione di una promozione marketing per romanzi letterari in vendita con il Corriere toglie poco al valore dell’analisi.

L’identità europea nasce dal romanzo (sì, anche dall’economia e dalla scienza, ma trova un senso nel romanzo). E anche per questo ormai che ha meno senso parlare di letterature nazionali. I veri autori contemporanei europei sono influenzati da Balzac, Hugo, Dickens, Mann, Marquez, Kafka, Kundera, Tolstoj, Calvino, Bernhard, Philip Roth o Pynchon in egual misura, non sono discendenti di padri che scrivevano nella loro stessa lingua, sono figli della Weltliteratur.

Sopravviverà tutta questa fondante ricchezza culturale, travasando il romanzo dalla carta allo schermo?

Ogni nuova tecnologia ha bisogno di uno (spesso doloroso) assestamento nell’integrarsi alla cultura dei suoi inventori.

Riusciranno i lettori a costringere se stessi (o con l’aiuto di utili e già esistenti App) a quel semplice “click” che scollega la lettura continuativa dalle distrazioni della rete, dai “ping” delle mail, delle chat, dalla seduzione della ricerca infinita?

Non lo so. Provateci. E vedrete forse che le 853 pagine di un romanzo di Stephen King ambientato nel 1963 si leggono con facilità anche su uno schermo, così com’è possibile leggere Tolstoj, Jack London, Platone e lo stesso MacLuhan.

L’importante è scollegare wifi o connessione Internet e avere le batterie cariche, nell’interesse della salvaguardia del pensiero continuativo e profondo.

 

 

(pubblicato anche su il Post a questo link)

Per una goccia d’inchiostro in più (di Carlo Pizzati)

Un conoscente indiano mi racconta con orgoglio la notizia di un 14enne americano di origini indiane che ha trovato il modo di far risparmiare alle casse dello Stato circa 400 milioni di dollari l’anno.

Come? Semplicemente cambiando il font di tutti i documenti ufficiali. Dal Times New Roman al Garamond. È solo una teoria, ma pare funzioni.

Il Garamond, oltre a essere più elegante, fluido e consistente, grazie al buon gusto di Claude Garamont che l’ha inventato nel 1530, contiene meno inchiostro del Times New Roman.

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Suvir Mirchandani, iscritto a una scuola media nella zona di Pittsburgh, per un suo progetto scolastico sui costi ha prima pensato a ridurre l’utilizzo della carta (ovvio) e poi ha guardato la questione obliquamente (genio).

“L’inchiostro costa il doppio del profumo francese,” ha detto Mirchandani.

Il Garamond ha lettere più sottili. E così lo studente ha preso una serie di campioni di documenti ufficiali. Ha calcolato quante “e,” “t,” “a,” “o,” e “r” vengono utilizzate, poiché questi sono i caratteri più comuni in inglese. E si è accorto che nel Garamond queste lettere sono più sottili che nel Times New Roman. Ha fatto i suoi calcoli. Risultato: risparmio del 24 per cento per la sua scuola. Risparmio del 30 per cento per gli Stati Uniti se applicheranno questo cambiamento.

La Rivista degli Investigatori Emergenti, fondata da studenti di Harvard tre anni fa, ha pubblicato la sua analisi affinata con Peter Pinto, analisi che ha dei punti deboli, senz’altro, come il fatto che abbia utilizzato un campione basandosi su documenti on-line, non quelli effettivamente stampati dallo Stato. Ma il ragionamento sembra comunque poter funzionare.

Ad arrivarci è stato uno studente di 14 anni.

È lo spirito dei tempi. L’invenzione più utile è quella che trova il modo migliore per tagliare i costi. Non è un’invenzione che genera un prodotto o scopre un modo più facile per produrre qualcosa. È un’indagine sugli sprechi, sull’eccesso, sull’indolente tendenza a dare per scontato ciò che è già lì (il Times New Roman) senza immaginare una soluzione sotto gli occhi di tutti (il Garamond).

È un’invenzione che viene forse da una cultura abituata a fare economia, come quella indiana, in contrasto con l’iper-consumismo americano: un altro esempio del fatto che l’integrazione globale non è per niente fallita, come qualche vento politico europeo vorrebbe suggerire.

(pubblicato anche sul mio blog ne il Post, qui)

Parole nel caos. di Carlo Pizzati

(nota: intervento al workshop su Caos e parole del “think net” Vedrò 2011. Il testo integrale sullo scopo del working group inviato dagli organizzatori è in fondo a questo documento. Le domande essenziali cui si risponde nel testo qui sotto sono le seguenti:

– Globalizzazione, radicamento e stratificazione delle differenze etniche e sociali, nuovi cultural divide, crossmedialità, sono tutti fenomeni che concorrono a rendere più ardua la sfida di un uso positivo e creativo della parola.[…]

– Come il linguaggio sta oggi condizionando la nostra immaginazione?

– Come ci può aiutare a dialogare davvero alla ricerca di prospettive nuove?

– Quali sono i ponti linguistici nella frammentazione e moltiplicazione delle differenze culturali?

– Come il linguaggio si riformula nella crossmedialità?)

 

LE VERE NEMICHE DEL CAOS.

“La globalizzazione rende più ardua la sfida di un uso positivo e creativo della parola?”

Cosa s’intende per uso positivo e creativo della parola? Un uso positivo: in riferimento a quale polarità? Qual è un uso negativo della parola?
La domanda è così generica che la risposta sfugge. E’ troppo soggettiva. Positivo per chi? In merito a quale fine? E “uso creativo della parola” cosa significa?
La parola, o l’uso delle parole, è di per sé un gesto creativo.

Le parole consumate e le parole che non riflettono con esattezza il significato voluto sono parole che non rispondono alla sfida di un uso positivo della parola? Ma in riferimento a cosa? Allo status quo di un linguaggio che si evolve male. Cosa significa “che si evolve male”? Che l’utilizzo del linguaggio non è al servizio del senso.
Parole che generano il caos invece di combatterlo.
Non sono le parole le nemiche del caos, bensì le parole giuste.
Quali sono le parole giuste? Quelle che più si avvicinano al senso voluto da chi esprime il pensiero attraverso quelle parole.
In che modo s’impara un utilizzo corretto delle parole? Attraverso lettura e scrittura. In quest’ordine.
Ma allora “globalizzazione, radicamento e stratificazione delle differenze etniche e sociali, nuovi cultural divide, crossmedialità” sono davvero fenomeni che rendono più difficile la pratica della lettura e della scrittura, indispensabili per far sì che le parole siano al servizio di un Ordine e Senso non agenti solo del Caos?
Non vedo come.
La globalizzazione, in ambito culturale, dovrebbe far sì che si vengano a conoscere autori di paesi molto diversi dal nostro. E così in Italia. Basti guardare i dati editoriali: il fatto che per gran parte degli editori l’autore straniero sia spesso una voce delle vendite che supera il 50 se non il 60 e in alcuni casi il 75 per cento delle vendite totali sembra dimostrarlo. Ciò accade anche grazie alla globalizzazione. Oltre che al provincialismo,  alla storica disponibilità di lasciarsi colonizzare anche culturalmente e altri meccanismi malati dell’industria culturale.


LA TASSONOMIA DELL’EBREO-ITALIANO AFRO-ANIMISTA

Le differenze etniche e sociali…

Non è chiaro cosa significhi. “Etnia” è un termine impreciso e scientificamente labile. Sappiamo che non esiste un’etnia italiana, né certamente una padana né un’etnia meridionale, siciliana, campana, lombarda, ligure, non esiste un’etnia regionale.
L’etnia è una popolazione di esseri umani i cui membri si identificano in un comune ramo genealogico o in una stessa stirpe, differenziandosi dagli altri come un gruppo distinto. Tutto ciò, nel contesto delal penisola italiana attraversata periodicamente nei secoli dei secoli da diversissimi generi di popolazioni di varia provenienza geografica è ridicolo.

Se intendiamo, invece di etnia, individui accoumnati da cultura, lingua, religione, usi e costumi forse il discorso cambia. Per Max Weber “gruppo etnico” definisce quei gruppi umani che condividevano la “credenza soggettiva di una comune origine”, a prescindere dalla sussistenza o meno di reali affinità parentali. Per gli americani, i gruppi etnici sono: afro-americani, ebrei, irlandesi, italiani, portoricani e cieò gruppi che secondo loro hanno medesima “razza” (concetto ancora più improbabile), religione e origine nazionale.
Quindi un ebreo-italiano di religione afro-animista a quale etnia apparterrebbe? A quale razza?
Tassonomie più che ridicole, ottuse: ma indispensabili ai fini di un’organizzazione dello Stato. Come sappiamo la burocrazia non ha bisogno di seguire i dettami della logica né della scienza per creare le sue regole.

Meglio non confondere la burocrazia con la realtà, o perlomeno con ciò che ci appare come la realtà. Non vedo come il radicamento e la stratificazione delle differenze etniche e anche sociali possano rendere meno positivo e creativo l’uso delle parole.

L’ARATRO ARTISTICO.

“La parola si svuota e la retorica si impadronisce del discorso. Il linguaggio contribuisce a generare il caos”.

Questo primo fenomeno è dovuto alla scarsa pratica della lettura e della scrittura. E come il linguaggio contribuisca a generare il caos l’abbiamo già speigato nella prima parte. Ovvero, in primo luogo il caos esiste in quanto può essere descritto. Se poi l’utilizzo inesatto della parola contribuisce all’aumento di confusione, ciò è dovuto a una perdita di conoscenza dello strumento dovuto alla scarsa pratica.
L’aratro non può essere usato per dipingere. O forse sì, se ne può fare un uso creativo, ma dipenderà poi dal risultato se ciò che viene creato è arte o caos. Ossia, ciò che conta è l’intelligibilità. Se usiamo parole nuove in contesti diversi e l’effetto generato è efficace siamo alla scoperta di un linguaggio nuovo: questo è un uso creativo delle parole.

COME L’UTENTE DIVENTA UTENSILE.

Quali sono allora i punti di rottura in cui le parole smettono di significare impedendo dialogo ed evoluzione?

Quando i maestri, gli esempi da seguire, chi parla in pubblico e al pubblico, chi viene imitato, insomma, può permettersi un utilizzo scorretto della lingua e anzi viene premiato per questo.

Sono un ragazzo fortunato perché non c’è niente che ho bisogno” Lorenzo Cherubini.
Ok se tu mi vuoi, l’appuntamento è sempre per le sei, sarei una pazza se non ci verrei” Valentina, trans neomelodico.

Ma perché l’oratore sgrammaticato può prendere il microfono senza censura e biasimo, anzi facendo leva proprio sul linguaggio scorretto come strumento di carisma?
La risposta è putroppo banale, come tante verità: la mercificazione di massa rende indispensabile abbassare la soglia comunicativa al minimo comune denominatore.
Se il canone è dettato da esigenze commerciali e non formative, il linguaggio deve per forza divenire quello più diffuso, ed è purtroppo quello meno preciso perché parlato da una vasta maggioranza di non lettori e spesso anche, per nostra fortuna, di non scrittori.

Se l’ignoranza dell’utilizzo esatto del linguaggio si diffonde assieme e a causa dell’atrofizzazione di attività come lettura e scrittura, il linguaggio diventa anoressico.
Impoverendosi, si depaupera il pensiero che dovrebbe esprimere.
Il risultato è una maggiornaza non più di persone o cittadini, ma di utenti, i cui meccanismi sono sempre più elementari, rendendo così sempre più facile il loro utilizzo.
Ovvero, grazie all’impoverimento della padronanza del senso delle parole, l’utente diventa utensile.
E’ lui lo strumento che deve lavorare meccanicamente per soddisfare necessità la cui radice non solo non riesce a capire, ma forse nemmeno a intravedere.

DACCI OGGI LA NOSTRA ICONOFAGIA QUOTIDIANA…

La nostra immaginazione allora risente di questo caos nelle parole?

L’immaginazione, lo dice il termine, è fatta da immagini, non parole. Dovremmo forse preoccuparci di più di quell’iconofagia quotidiana cui sottomettiamo gli occhi nelle nostre città e case, in quanto a danni all’immaginazione. Per fortuna poi arrivano i sogni a scompaginare tutto e a rimescolare la nostra ebbrezza di immagini con un Demiurgo misterioso, forse nascosto in qualche piega dell’Inconscio (sempre che esista).
Le Parole, come appunto la buona poesia, possono essere la fonte alla quale abbeverare un’immaginazione desiderosa di stimoli, inneschi e micce verbali per esplosioni visive.
Se le parole sono quelle sbagliate, la deflagrazione non avverrà.

IL TEATRO DELLE PAROLE.

Come ci si può aiutare a dialogare davvero alla ricerca di prospettive nuove?

Prima di chiedersi come, forse è meglio chiedersi “se” ci si può aiutare.
Il rapporto con le parole, lo ripeteremo ad nauseam, è ovviamente fondato su lettura e scrittura, ma è anche giusto precisarlo, sull’ascolto di parole giuste, quindi anche sulla buona recitazione di buoni testi (ovvero testi che usino un linguaggio esatto).
Allora il singolo, l’individuo, può nutrirsi di buone letture, buon teatro, buon cinema con buoni testi, ma avrà con queste opere un’esperienza diretta e solitaria, non collettiva.
Solo così può davvero far proprio il significato, senza tradurlo attraverso schemi – magari addirittura ideologici – appresi da altri.
Quindi al massimo ci si può aiutare nella ricerca di un miglioramento dell’esattezza del nostro linguaggio consigliandoci gli uni con gli altri i buoni maestri.
In questo, i canali di comunicazione di massa tradizionali – carta stampata, tv, radio – a volte eccellono, ma sempre più cadono vittime del pervasivo clientelismo e nepotismo che già pervade il resto della nostra società.

IL PRIMO MATTONE DEL PONTE LINGUISTICO.

Quali sono i ponti linguistici nella frammentazione e moltiplicaizone delle differenze culturali?

Cos’è la frammentazione e moltiplicazione delle differenze culturali? Cosa si intende con questo parlare oscuro? Parliamo di chi utilizza la lingua con cognizione in rapporto a chi lo fa nella confusione dei significati? Allora prima di stabilire quali sono i ponti, meglio stabliire il metodo per costruirli. Il primo è la chiarezza. Parlare chiaro. Scrivere chiaro.
Ciò non significa svilire la complicazione del pensiero con concetti più rudimentali. Non siamo demagoghi. Significa sapere ciò che si sta dicendo e trovare le parole universalmente più esatte per esprimerlo, ma nel contempo avere anche la cognizione della comprensibilità del linguaggio che si sceglie.
Più ristretta ed elevata la scelta della parole, più esili saranno i ponti linguistici tra i frammenti delle molteplici differenze culturali. Ad esempio una frase come “come il linguaggio si riformula nella crossmedialità” non è per niente chiaro alla gran parte dei lettori. Quindi perde di forza e di conseguenza di utilità.
La sociologia e la linguistica non salveranno la lingua.
Aveva ragione Calvino. E’ compito della letteratura: buone storie e la capacità di scriverle in modo da affabulare informando ed emozionando con il linguaggio più esatto possibile.

(Caos e parole. VeDrò)                     Vicenza 26 agosto 2011    

(Carlo Pizzati © 2011)

TESTO ORIGINARIO DEL WORKING GROUP.
Lo scopo del Working group è quello di avviare una riflessione
sull’uso e abuso del linguaggio nella società contemporanea,
con particolare attenzione ai luoghi elettivi in cui si elaborano
la nostra cultura, il nostro immaginario, e dove si assumono decisioni
rilevanti per i destini individuali e della comunità. In tal
modo, intendiamo risalire ai nuovi significati e ai nuovi valori che
caratterizzano la cultura contemporanea, prevedendo future
evoluzioni possibili.

Globalizzazione, radicamento e stratificazione delle differenze etniche e sociali, nuovi cultural divide, crossmedialità, sono tutti fenomeni che concorrono a rendere più ardua la sfida di un uso positivo e creativo della parola.

Le mutazioni del contesto
contemporaneo mettono in crisi consistenza e univocità:
assistiamo alla convivenza di diverse strutture e tipologie discorsive.
Nella babele di parole sorte, morte e risorte, invertite
di significato, slittate, risemantizzate rischiamo di perderci:
la parola si svuota e la retorica si impadronisce del discorso. Il
linguaggio è allo stesso tempo la vittima, l’assassino e la soluzione
del giallo. Contribuisce a generare il caos ma, in quanto
struttura significante, rappresenta anche l’unica soluzione e via
di superamento. Questa è la sua funzione primaria: dare ordine
alle cose, renderle intellegibili e permetterci di agire su di esse.

Riappropriarci del nostro futuro significa saper articolare e verbalizzare
una narrazione dotata di senso e, dunque, di prospettiva.
Il linguaggio in quanto discorso rappresenta la via maestra
del rapporto con l’Altro, l’unico modo di costruire un orizzonte
comune ed è più che mai importante riconoscerne l’attuale statuto
sociale, i fraintendimenti e gli automatismi in cui rischiamo
di incorrere. È l’incontro con l’altro a generare naturalmente il
caos perché ci porta fuori dal nostro campo: c’è bisogno di una
reciproca focalizzazione per determinare, insieme, il nuovo significato
di una parola e quindi di un’esperienza.

Il linguaggio è uno spazio neutro di definizione a due o più vie attraverso cui
negoziare le relazioni. Tutti quelli coinvolti nelle attività di linguaggio
abbandonano l’identità individuale per poter mantenere
il disequilibrio, quello che possiamo chiamare lo sbaratto sociale,
per ottenere il contatto. Cercheremo di individuare i punti di
rottura, spaesamento, sovrapposizione in cui le parole smettono
di significare impedendoci di dialogare ed evolverci. In questo
modo, le ricomprenderemo nel loro valore e ci lasceremo guidare
dalla potenza dei loro significati. Ci faremo ispirare dal linguaggio
per far emergere il meglio che c’è in noi e nella società e
per far apparire, come in una cartina di tornasole, i nuovi valori
che contraddistinguono il nostro tempo.

C’è un nucleo di verità nel linguaggio, al di là della fluidità del
gioco dei significati, che non è una gabbia ma un invito al libero
esercizio delle facoltà intellettuali e spirituali dell’uomo. Il linguaggio
è tanto vicino alla realtà quanto strumento indispensabile
per l’immaginazione. Le parole non sono le cose solo perché
permettono di distaccarcene e quindi riconoscerle e modellarle.

Come il linguaggio sta oggi condizionando la nostra immaginazione?

Come ci può aiutare a dialogare davvero alla ricerca di prospettive nuove?

Quali sono i ponti linguistici nella frammentazione e moltiplicazione delle differenze culturali?

Come il linguaggio si riformula nella crossmedialità?

Caos è parole. di Carlo Pizzati

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Secondo i Veda e la Bhagavad Gita, il Caos è Maya, cioè l’illusione di questa realtà.

Il Caos non è un misterioso disordine cosmico che ci attende nel blu profondo dell’Universo, nascosto dietro qualche galassia. E nemmeno un magmatico oceano di lava che ribolle minaccioso accanto al cuore della terra.

Caos è piuttosto l’illusione generata dal Samsara, il continuo gioco tra desiderio e sofferenza che costella e soggiace alla trama della vita.

Il Caos quindi è nella nostra percezione. Il Caos è la Parola. Senza la parola “caos” non ci sarebbe il Caos. Il Caos allora è nel credere ai nostri sensi. Nel credere anche in un senso delle cose, senso che con tutta probabilità, invece, ci sfugge.

Sembra contraddittorio, ma nella logica vedica, secondo la quale l’unica cosa che esiste è l’Uno, l’Atman, il Brahman, e cioè la Consapevolezza Assoluta, non vi è alcuna contraddizione nel vedere la realtà come Caos.

Cosa possono fare le parole, o meglio la parola, in rapporto al Caos?

La parola, secondo i Veda, è una colonna d’acqua scrosciante fra cielo e terra.

Prajapti, il Dio creatore, si congiunge a Vac, la Parola, per generare gli dei (vedremo poi come Vac stessa nasce da Prajapati). Ma è Vac, la femmina, la parola a ingravidare Prajapati, facendo nascere così da lui otto gocce, otto dei, i Vasu. E il coito continua e nascono altre gocce o divinità: i Rudra, gli Aditya, dei della luce, e poi Visvedevah, Tutti-gli-dei. E poi Prajapati si stacca da lei, dalla parola.

Ma prima che Vac nascesse Prajapati non era solo il Dio della creazione, era la creazione stessa, al punto tale da non poterla nemmeno descrivere, poiché egli era e basta. E non aveva parole per descrivere se stesso. Quando nacque Vac, Prajapati fu finalmente in grado di contemplare la creazione, cioè se stesso. Ovvero, la Parola è alla radice stessa della coscienza di sé. Anche se questo sé è sempre solo il poliedrico gioco dell’Illusione, come la creazione stessa.

Vac è anche la grandezza stessa di Prajapati. Come si crea la parola? La mitologia vedica anche qui ci restituisce immagini simboliche utilissime a capire il significato del lemma.

Quando il Dio creatore osserva inorridito il figlio Agni (il fuoco) voltarsi verso di lui per divorarlo, appena dopo esser nato, “la sua grandezza fuggì da lui”. Infatti Prajapiti si sente indebolito dopo questa fuga, dopo che la grandezza gli è sfuggita. Cos’è questa grandezza? L’essere femminile che viveva in lui, la Parola, che lo abbandona. O meglio, esce da lui e gli parla. E Vac gli dice: “Offri!”. E mentre Prajapati offre, cioè sacrifica, si rende conto che è stato lui stesso a parlare.

“Quella voce era la sua grandezza che aveva parlato a lui”.

Quindi, come scrive Roberto Calasso in “Ardore”: “Appena si riconosce la propria voce in un essere separato, si crea un Doppio che dialoga per sempre con colui che dice Io”.

Prima di arrivare al ruolo della parola nei testi biblici bisogna passare per la mitologia greca, che solitamente ci rimanda l’archetipo di “chaos” a noi più noto. Omero dice che fu Oceano “l’origine degli dei” e “l’origine del tutto” che emerge dal caos. Ma Oceano stesso, divinità fluviale, dopo la crezione resta al suo posto come flusso, corrente, pur non essendo nemmeno davvero un luogo.  Per i cantori orfici, invece, la cosmogonia è un’altra. Ad apparire dal caos è la Notte, Nyx, una dea che intimoriva anche Zeus, secondo Omero. Era un uccello dalla ali nere che, fecondata dal vento, depose il suo uovo d’argento nell’oscurità. Dall’uovo nacque il figlio del vento, divinità dalle ali d’oro, Eros, dio dell’Amore noto anche come Protogonos, il progenitore, e Fanete, colui che mostra ciò che è nascosto nell’uovo d’argento: il mondo intero. Sopra vi è il Cielo, sotto, il globo terracqueo.

Caos, o Chaos, in greco antico, non significava originariamente confusione e mescolanza, ma piuttosto ciò che resta nell’uovo vuoto, anzi nell’uovo “spalancato” (il significato letterale di caos).

Per Esiodo è la Terra, Gea che emerge dal caos, che non è una divinità ma solo un vuoto “spalancarsi”. Nel mito pelasgico della creazione è Eurinome, Dea di Tutte le Cose, che appare dal caos, trovando il vuoto sotto i piedi divide il mare dal cielo e intreccia una danza sulle onde. Danzando seduce il Vento del Nord e da esso appare il serpente Ofione che si accoppia con lei. Eurinome depone il famoso Uovo Universale e da lì fuoriescono tutte le cose: sole, luna, pianeti, stelle, terra, monti, fiumi, alberi, erbe e creature viventi.

Secondo invece i miti filosofici prima vi furono le tenebre e dalle tenebre emerse il caos. Dall’unione di tenebre e caos nacquero la Notte, il Giorno, l’Erebo e l’Aria.

Cosa dice il più grande filoso del caos? Platone fa parlare Timeo nel Grande discorso Cosmologico. Timeo si interroga sulle cause, e prima ancora si chiede se cielo e mondo siano sempre esistiti o se l’Universo sia stato generato. Fu generato, azzarda Timeo, avendo postulato che tutto ciò che è visibile ha una causa, ed essendo visibile e percepibile ai sensi l’Universo, anch’esso deve avere una causa e quindi un Artefice, un Demiurgo. Dal caos il Demiurgo crea l’Universo, a sua immagine e somiglianza, bello e buono, poiché, dice Timeo, “non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo”.

La parola che emerge dal caos, per Platone, è “buono”.

La Bibbia ci offre un’interpretazione più semplice del rapporto tra Caos e Parole. “Nel principio Dio creò il cielo e la terra – dice la Genesi descrivendo la Creazione – Ma la Terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla superficie dell’Oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque.

Dio allora ordinò: “Vi sia luce”. E vi fu luce”.

Ecco Fiat Lux. Incredibile, ma la prima parola pronunciata da Dio per mettere ordine nel caos è stata: “Fiat” (cosa che lascia sicuramente perplessi gli operai della Mirafiori).

Non è un gesto e nemmeno un pensiero, l’agente dell’Ordine nella Creazione: è una parola.

Ed è quella stessa parola, ora divenuta lingua, che il Dio Cristiano, o meglio il Dio pre-cristiano dell’Antico Testamento ebraico vede come minaccia tra i discendenti di Sem, Cam e Iafet.

Quando questi discendenti si stabiliscono a Sennaar e costruiscono una torre “la cui cima sia nei cieli” Dio interviene vedendo “un solo popolo e un labbro solo è per tutti loro,” così dice Dio, preoccupato da questa Parola che unisce i popoli. “Ormai tutto ciò che hanno meditato di fare non sarà loro impossibile” dice ancora Dio nella Genesi (11,3). E allora? “Orsù, discendiamo e confondiamo laggiù il loro labbro…”. Per mettere fine all’unificazione della Parole, Dio riporta il caos.

Così, i Sennaariani si confondono, non si capiscono più, torna il caos attraverso la confusione delle parole (e continua fino a oggi).

Dio è salvo. I cieli inoppugnabili. Anche se non per molto.

E la città stessa cambia nome. “Per questo il suo nome fu detto Babele” o Babel che deriva dall’ebraico balal – confondere, anche se Babel significa in realtà “Porta di Dio”. Una porta chiusa da Dio con la confusione dei linguaggi per evitare d’essere raggiunto.

“Dio,” dicono le note alla Bibbia delle edizioni Paoline, “vuole l’unità dell’umanità da lui creata, ma non vuole l’uniformità nell’oppressione” come quella dei Babilonesi che tentavano di unire diversi popoli sotto un’unica lingua.

Cosa dice invece il Corano a proposito? Dalla sura della Vacca in poi il Corano è un inno a sé stesso, all’importanza del libro stesso e della fede che propugna, è un canto alla rilevanza e centralità dell’invocazione del nome di Dio. Il Corano è la Parola. Ma in quanto al Caos, il Corano si richiama ad Abramo, a Mosè ed è quindi figlio di quella mitologia e di quella genesi biblica di cui abbiamo appena detto.

In quella Bibbia c’è un testo che è scritto proprio da “colui che prende la parola,” forse le pagine più poetiche della Bibbia, un vero poema ebraico, l’Ecclesiaste o Qohelet. E cosa dice colui che prende la parola? Che tutto è Caos. Ecco di nuovo la parola che crea il caos, descrivendolo, nell’ispirata traduzione di Ceronetti:

“Fumo di fumi

Tutto non è che fumo

C’è un guadagno per l’uomo

In tutto lo sforzo suo che fa

Penando sotto il sole?”

No, sembra dire Qohelet: i bimbi nascono e poi “vanno via. E da sempre la terra è là”. Il sole si leva e tramonta, i venti girano da sud a nord, anzi il vento “altro non fa che giri,” mentre i fiumi continuano a versarsi in un mare che mai si riempie. Nulla ha un fine, tutto è circolare.

“Ogni sarà già fu

E il si farà fu fatto

Non si dà sotto il sole

La novità”

Le parole.

Si dice che le parole portino ordine nel Caos.

Qui, in queste parole che state leggendo, si dice invece che le parole sono il Caos, in quanto lo definiscono.

Torniamo all’idea originaria dell’esattezza come antitesi del caos, e per la precisione, all’esattezza del linguaggio su cui ragiona Italo Calvino nelle “Lezioni Americane” e che dà il titolo al Terzo capitolo di quel libro.

“Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazinone” a questo anela Calvino. Ma vede anche un’epidemia (il caos) esplodere nel linguaggio e individua nella letteratura la matrice degli anticorpi per contrastare l’espandersi di quella che chiama “peste del linguaggio”: il Caos di Babel, la porta di Dio invasa dalla confusione dei significati.

Oltre alla malattia insita nell’uso delle parole, al caos contribuiscono anche le immagini, o meglio quello che Calvino descrive come una nuvola d’immagini che “si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria”.

Calvino individua l’inconsistenza del mondo stesso, in tutto ciò. La perdita di forma colpisce tutto e Calvino cercava di opporvi l’unica difesa che riusciva a concepire: un’idea di letteratura.

L’imprecisione come radice del Caos. Cioè il contrario di quanto sostiene Giacomo Leopardi secondo il quale il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso. Parole generatrici di Caos. Poetico Caos, ma pur sempre Caos.

Nello Zibaldone, Leopardi elenca le situazioni propizie alla stato d’animo dell’”indefinito” e parla di “quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre.”

Eppure, come ricorda Calvino, nessuno è più preciso di Leopardi nel definire i contorni e nel descrivere la vaghezza.

Paul Valery e il suo Monsieur Teste sono un altro esempio di descrizioni specifiche delle forme geometriche di una sensazione caotica come il dolore: “zone dolorose, anelli, poli, pennacchi di dolore” che tuttavia lo lasciano incerto, o meglio, per essere più esatti “riscontro in me stesso qualcosa di confuso e di diffuso.” Ecco ancora il Caos che vince sulle parole.

E così l’universo si disfa, ricorda Calvino “precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito, in una immoblitià minerale, ma vivamente come un organismo”.

Cioè la poesia come grande nemica del caso pur essendone figlia e conscia del fatto che il caos avrò sempre partita vinta.

Caos è parole. Per questo ha sempre la meglio su di esse.

E’ forse perché dal caos veniamo prima di nascere e al caos torniamo prima di morire?

Dubbio mistico. Quel caos potrebbe essere il buddhistico “vuoto”, oppure il vedico “pieno”.

Essendo oltre la nostra possibilità di descrizione, resta mistero.

Ma in quella barriera tra il descrivibile e l’indescrivibile le parole si sfibrano.

Ecco allora che si approda alla poesia, dove senso e caos si mescolano, terreno di frontiera tra queste due idee.

“In principio era il verbo.

Alla fine, il silenzio.

Finalmente.”

(“Chiacchiere metafisiche” – dalla raccolta di poesie “Lungo le scale del mio smarrimento” C.Pizzati)

(Carlo Pizzati© 2011)

La Chiesa ce l’ha Amorth con lo Yoga. E con Harry Potter, of course. di Carlo Pizzati

“Mi piace il vostro Cristo,
non mi piacciono i vostri cristiani.
I vostri cristiani sono così diversi
dal vostro Cristo.”
Mahatma Gandhi, jainista.

“Lo yoga è opera del diavolo”.
Padre Gabriele Amorth, professione esorcista, ha ragione.
Inutile dargli tutti addosso solo perché ha quel nome, quella faccia e quel lavoro.

Se il tuo mestiere è fare l’esorcista, è giusto che tu indichi dove, a tuo parere, si nasconde Satana. La password per capire come mai le dichiarazioni dell’esorcista della Diocesi di Roma fanno tanto scandalo, è in quel “nasconde,” che indica la natura occulta di Satana.

Dove si rintana Satana è la preoccupazione primaria del prete paolino che ha 86 anni e poco da perdere, essendo già sopravvissuto a più di 70 mila esorcismi. “Dal Demonio ho avuto tante minacce, ma mai nessun danno,” ha detto: cosa che a una mente laica potrebbe indicare che sono tutte sue fantasie e che sente le voci. Ma gli anatemi del fondatore e presidente onorario dell’Associazione Mondiale Esorcisti hanno un fondamento teologico e vanno presi sul serio.

Cos’ha detto di tanto strano The Exorcist?

“Le pratiche orientali apparentemente innocue come lo yoga sono subdole e pericolose. Pensi di farle per scopi distensivi, ma portano all’induismo. Tutte le religioni orientali sono basate sulla falsa credenza della reincarnazione.” Questo potrebbe bastare come effetto comico, penserete voi, ma Amorth ha aggiunto che anche il maghetto di Hogwarth ha i suoi connubi luciferini: “Harry Potter porta alla magia e quindi porta al male. Anche in Harry Potter il demonio ha agito in maniera nascosta e furba, sotto forma di poteri straordinari, magie, maledizioni.” Quindi se pensi di rilassarti facendo yoga e leggendo Harry Potter, sei fritto (da Satana).


Lasciamo perdere la spietata concorrenza tra magia e miracoli cattolici, non è certo questo a causare l’ “apostasia silenziosa” denunciata a suo tempo da Papa Wojtyla: l’emorragia inarrestabile di vocazioni, pratica e sacerdoti dalla Chiesa Cattolica. Ma arrivare a dire che lo yoga porta all’indusimo, questa è una contorsione logica che può essere scusata solo con il fatto che forse  padre Amorth non sa di cosa sta parlando. Nonostante questo, che l’induismo a suo avviso sia satanico merita d’essere spiegato perché tocca un nervo religioso ed etico importante.

Padre Amorth, come gli altri Fondamentalisti Cristiani, ritiene che credere nei fenomeni della reincarnazione come fanno gli induisti equivalga a cadere negli inganni del diavolo perché il cristianesimo sostiene l’esistenza di una divisione tra il Bene e il Male, afferma che Dio è lassù nell’alto dei cieli, un’entità separata dall’essere umano, mentre secondo la visione advaitica dell’induismo, la più diffusa e conosciuta, non esiste una divisione tra il Bene e il Male, come non esiste divisione tra esseri umani, animali, cose e la Divinità.

A-dva, “non-due”, ovvero “tutto è uno”. Tutto in realtà può essere definito come un unico Spirito che s’incarna in diverse identità e poi si re-incarna fino a quando riesce a ricordarsi di essere quell’Unico: l’illuminazione. Come la non-violenza, ahimsa, è la negazione della violenza, così l’advaita è la negazione della dualità. Non c’è Bene e Male, tutto “è” e basta, e soprattutto tutto è Dio, o meglio tutto è Consapevolezza Assoluta. I primi testi vedici, però, non parlano di Divinità, ma di Energia, e descrivono soprattutto il fatto che nulla di quello che i nostri sensi sperimentano esiste davvero, tutto è illusione, Maya. L’unica cosa che esiste e l’unica cosa che siamo, secondo i testi vedici alla radice dell’induismo, è Consapevolezza Assoluta.

Il demonio, dice l’esorcista della diocesi di Roma, ama nascondersi e l’induismo, negando che il Male sia scisso dal Bene, secondo lui fa proprio questo, asservendosi così a Satana le cui armate cornute e codute ora tentano di penetrare l’Occidente cristiano facendo sudare i credenti sui tappetini delle palestre di mezzo emisfero. Non più solo alcol, droga, sesso sfrenato, bugie e imbrogli: ora Satana si scatena facendo la “posizione di loto”.

Non scherza, Amorth, fa sul serio, forse corroborando le sue tesi con il fatto che per alcuni satanisti lo yoga kundalini genera la bioelettricità, che altro non sarebbe che una sorta di super-energia diabolica, il “ki,” il prana, l’aura, lo spirito, il potere delle streghe (qui anche i satanisti fanno un po’ di confusione).


Ma allora, seriamente, citiamo il documento “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II in cui si descrivono le pratiche meditative del buddismo e dell’induismo come “vie per superare l’inquietudine del cuore umano”. E’ sempre la Chiesa a dirlo. Non occorre scomodare il filosofo Panikkar, che diceva d’essere diventato induista e poi buddista senza mai smettere d’essere cristiano. Questa è una visione troppo sincretica per “The exorcist” Amorth. Ma anche Madre Teresa di Calcutta, che si è guadagnata onore cristiano sul campo, ha sempre cercato di trovare la sintesi tra cristianesimo e induismo. A proposito di reincarnazione, lo stesso Sant’Agostino nelle “Confessioni” solleva dubbi interessanti: “Non ho vissuto in un altro corpo prima di entrare nel seno di mia madre? Quando, Signore, io ho peccato? Quand’ero nell’utero di mia madre o prima ch’io fossi?”
Nonostante il concetto di reincarnazione sia stato ripudiato dalla chiesa cristiana nel Sinodo di Costantinopoli del 553, tra i Catari e gli Albigesi della Linguadoca in seguito riaffiorò l’idea (furono massacrati anche per questo), e oggi la Chiesa Cattolica Liberale, la Chiesa Unitaria, i Movimenti spiritualisti Cristiani e i Rosacruciani sostengono di credere alla reincarnazione, senza temere di passare per satanisti. E anche nella Qabbalah ebraica si descrive il Ghilgul, una forma di reincarnazione.

L’anatema di Amorth, quindi, potrebbe nascere da un ragionamento non condivisibile, ma comprensibile, se non fosse che si basa su una premessa che per chiunque abbia praticato gli asana di Patanjali è ridicola, è cioè che lo yoga porta all’induismo.
Patanjali inventò lo yoga come pratica per una vita più sana che conduceva, sì, alla “Divinità interiore,” ma per essa intendeva quell’energia vedica che non si personalizza in una divinità indù, ma esprime un concetto metafisico accettabile per ogni religione. Le vie dello yoga portano a un senso di rilassatezza, ma attraverso quella “meditazione, concentrazione, devozione e ascetismo” che piaceva tanto, nell’induismo e buddismo, anche a Papa Giovanni Paolo II, come disse nell’81 in un suo discorso sul tema all’auditorium di “Radio Veritas”.

Patanjali è considerato il massimo studioso di uno dei quattro Yoga di base, o sentieri per raggiungere l’unione con la Consapevolezza Assoluta. Gli insegnamenti che ha trascritto e che fino ad allora erano stati tramandati oralmente risalgano ad almeno 10 mila anni prima della nascita del messia cristiano. I suoi “sutra” incitano a seguire otto stadi attraverso i quali raggiungere l’illuminazione, la comunione totale con il divino: non violenza, sincerità, non rubare, castità, non avidità, pulizia, l’accontentarsi, austerità o fervore nel lavoro, ricerca interiore e la resa al Signore in tutte le nostre azioni. Sembrerebbero in realtà le stesse regole di quei bacchettoni dei Fondamentalisti Cristiani.

Cosa ci sia di Satanico in tutto questo non è chiaro. Se poi in alcune scuole di yoga si siano abbinati mantra e insegnamenti che portano ad altri aspetti della cultura indiana attraverso l’iconografia religiosa, i piccoli Ganesh, gli Shiva, il simbolo sanscrito dell’Aum, questo è un altro discorso. Ma che lo yoga porti all’induismo resta da dimostrare.

I monaci benedettini che in Italia e in India hanno scuole di yoga non si riconoscono sicuramente negli anatemi fondamentalisti di Amorth. E non credo che adesso le nuove scuole del Christian Yoga – che per ogni posizione del corpo hanno trovato nomi e situazioni più evangeliche – bruceranno i loro tappetini di gomma in tanti sacri autodafé.

Si calcola infatti che in America siano quasi 20 milioni gli yogini che praticano regolarmente, se non di più, e circa 100 mila gli istruttori che insegnano in 20 mila palestre. In alcune, però, s’insegna solo il Santo Yoga che incita a “praticare con intenzione cristiana” in omaggio a “Nostro signore che sei nei cieli”. Così sono nati centri per il Yaweh Yoga il cui slogan è “trova il tuo centro con Cristo” e le posizioni sono quelle di Patanjali, ma con “un’altra intenzione.”

Forse questo è uno yoga che andrebbe bene a padre Amorth, tanto che non si chiama nemmeno yoga (che significa “unione” in sanscrito), ma “movimenti in preghiera,” Praise Moves. La sua inventrice, Laurette Willis, è un’ex insegnante di yoga pentita che ha mantenuto alcuni degli effetti delle posizioni yoga, purgandoli dalla “capacità di trasformare in indù chi le segue”. Nel suo manifesto cita addirittura un passetto della lettera di Paolo agli Efesini in cui scrive che Satana è il “principe della potestà dell’aria” (Efesini 2:2) e che quindi la respirazione yoga del pranayama è davvero satanica.
Così la Willis ha inventato nuovi nomi per le posizioni, e ad ognuna ha abbinato un passetto della Bibbia da ripetere a memoria durante ogni posizione. C’è la posizione che imita una lettera dell’alfabeto ebraico, poi “l’Altare” che equivale a una flessione a terra, e infine “Il Crocefisso” con le mani aperte verso il Dio Onnipotente, e non congiunte verso quei “falsi idoli” indù.

Ecco uno yoga, pardon, dei “movimenti in preghiera” (cristiana) che passerebbero la censura di padre Amorth. Ma che qui, forse, troverebbero qualche adepto solo tra gli iscritti di Comunione e Liberazione.

Amen.

(@ Carlo Pizzati 2012)