Bending Over Backwards by Carlo Pizzati

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Bending over Backwards is a memoir and a travelogue, of places and experiences that are literal as well as of spiritual significance. It’s also an exploration of the significance of technology in a spiritual quest and whether we can justify its use.

The book starts with the mention of a backache, chronic and all-pervading. It is for a cure that the journeys and fascinating experiences come about, ending in India.

Being an Indian, reading about India from a foreigner’s perspective seemed like an incomplete experience at best, whenever I did read such an account.

Though, a disclaimer here that Bending Over Backwards is not an India-centric experience only. In fact, the author’s journeys and esoteric cure seeking had me enthralled.

It’s quite entertaining to see different places, right from Italy to US to Argentina to India. As the writer gets on flights for yet another stop on his search for…

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IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

LA MUSICA INDIANA E LA CLASSICA OCCIDENTALE

Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo radunati dal grande genio ungherese, tra le prospettive delle tre vie di Tebe scompaiono le volute invisibile dei brani di Bach, Brahms, Mendelssohn e Schuman. 

Mi volto a osservare il pubblico, dalla prima fila in platea: sorrisi rapiti dalla gioia, sguardi assorti dall’incredibile tecnica e passionalità dell’esecuzione. Nessuno si annoia, tutti comprendono, con i sensi o con la mente, di essere di fronte a una serata memorabile, travolta da una cascata di applausi che implora i talenti di tornare sul palco, ripetere, bis!

La perfetta macchina musicale di Schiff riprende con un Lieder. Mi lascio accompagnare sulle note della fantasia tra i castelli in aria che la musica classica edifica nell’immaginazione. Sono tornato in Italia dopo molti mesi in India da solo due giorni e non riesco a evitare un continuo paragone tra la musica di quel Paese e queste composizioni classiche a me così familiari.

La prima notte della mia vita che ho dormito in India, nel 2008, fu proprio un brano di musica classica ascoltato in una stanzetta affittata a Mysore, nel Karnataka, a creare la colonna sonora di un trauma culturale sul quale dopo tanti anni ancora mi interrogo. «Tuba mirum spargens sonum/per sepulcra regionum/coget omens ante thronum.» Il solenne Tuba Mirum del Requiem di Mozart dice che la tromba, diffondendo un mirabile suono per i sepolcri del mondo, raduna tutti attorno al trono del giudizio universale. È un testo rappresentativo, un maestoso assolo di trombone che descrive il giorno del giudizio, quando «tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito.» Così la voce narrante del Tuba Mirum si chiede: «Che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?» 

Non seguivo il senso delle parole, in quella prima notte indiana, eppure era come se una mano invisibile fatta di note mi scavasse nel petto fino allo stomaco per strapparmi lentamente gli organi, fino alla gola, e uscire sotto forma di lacrime. In quelle note profonde, in quel racconto baritonale appoggiato sul suono della tromba, sentivo condensata tutta la profondità e l’autorità della cultura europea che mi pareva dileguarsi nell’oscurità di Mysore. Era come se sentissi che non avrei mai più rivisto nessuno degli amici, parenti e amori lasciati in Occidente. Una specie di morte del passato, di fronte a un futuro davvero indecifrabile in una terra molto aliena per me, quella notte. Un giorno del giudizio, come dicono le parole del Tuba Mirum. Come se la prospettiva su tutto ciò che rappresenta le mie radici, cioè l’Europa e un po’ l’America, il famigerato Occidente, sarebbe cambiata per sempre. L’importante, qui, è che fu proprio questo brano classico così narrativo a operare come simbolo di un’identità razionale ed espressiva, quella europea, appunto.

Anche le note estratte dall’aria dalle mani bianche di Sir András Schiff, mentre osservavo i virtuosismi della sua orchestra, si manifestavano come un codice che rappresenta perfettamente la cultura che le ha espresse. Rotelline di un orologio che oscillano con precisione al momento giusto. La scienza, la tecnologia, l’esecuzione perfetta di viola, violini, violoncello, trombone, corno francese, flauto classico e clarinetto, una sfida tra due pianoforti: tutti ingranaggi di una mentalità che trova il suo fulcro nell’organizzazione appassionata e smaniosa, nella capacità di costruire un congegno, in questo caso musicale, composto da note ben calibrate e dosate, suonate ad arte e all’unisono da esecutori quasi sempre impeccabili. Un sistema assoluto che riflette la razionalità, l’ingegneria e la meccanica su cui l’Occidente ha costruito una superiorità imposta con il colonialismo e di cui va ancora così orgoglioso. Musica classica come algoritmo, quindi, come programma di software.

So che è un errore della nostra era tecnologica tentare di spiegare tutto tramite gli ingranaggi dello strumento che più ha trasformato i nostri tempi, il computer. L’umanità è ben altro che una delle strutture che ha creato. Usare i transistor come uno specchio è la pigrizia dei limiti del contemporaneo. È stata invece la buona e vecchia musica classica, quella sera all’Olimpico di Vicenza, a rappresentare così bene tutto ciò che noi europei siamo stati e ancora siamo (anche se un collegamento tra spartito e software ovviamente c’è).

Come tanti borghesi europei del secolo scorso, sono cresciuto con l’idea che lo studio della musica classica rappresenti il minimo comune denominatore della cultura alta. Per la famiglia di commercianti di mia nonna paterna, emigrati in Italia dall’Impero austro-ungarico, lo studio della pittura a olio e del pianoforte rappresentavano un’evidente emancipazione, un’aspirazione verso un ruolo più rispettabile in un piccolo mondo antico. Nonna Marì, dopo undici anni di conservatorio, mi stiracchiava quindi i polpastrelli di scolaretto delle elementari con quello che all’epoca percepivo come un suo lieve sadismo. Stringendole con dolorosa foga, diceva che le dita dovevano colpire la tastiera del piano «come piccoli martelletti». Proprio come i martelletti che scoprii aprendo il coperchio del pianoforte. L’uomo che si fa strumento per suonarlo. Ecco di nuovo gli ingranaggi di una musica sublime che interpreta un ruolo sociale, per meritarsi il quale bisogna soffrire, indurire le proprie mollezze umanamente organiche, spaccandosi le labbra sul bocchino di una tromba, morsicando l’ancia di un clarinetto, o facendosi il callo alle dita sulle corde di un violino o di un violoncello prima ancora che su una chitarra. Per migliorarsi bisogna soffrire, ecco un altro valore occidentale implicito nella sua musica.

 Sul ruolo della musica classica come strumento di emancipazione sociale ragionava anche il Nobel per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee ricordando come fu rapito dal primo ascolto, lui appena 15enne, dei preludi e le fughe di Bach della raccolta Il clavicembalo ben temperato: «Mi chiesi se quella musica mi stava parlando attraverso i secoli o se invece stessi scegliendo simbolicamente l’alta cultura europea, cercando di impadronirmi dei codici di quella cultura come una strada che mi avrebbe emancipato dalla mia classe sociale in Sudafrica, bloccata in un cul-de-sac della Storia.» Musica come affinamento dell’anima, perché insegna a scrutarne i moti.

Nonostante le ambizioni della borghesia europea degli anni Ottanta si siano infrante in una democratizzazione dei gusti che approda oggi alla robotizzazione della voce umana, rappresentata dall’abuso dell’autotune negli hit più popolari del momento, la musica classica rappresenta ancora la spina dorsale di un’identità occidentale proprio grazie a un suo aspetto intensamente rappresentativo. Lo descrive benissimo il personaggio di Helen Schlegel in Casa Howard di Edward Morgan Forster ascoltando la quinta di Beethoven e vedendo «eroi e naufraghi nell’alluvione musicale.» Per lei, il compositore tedesco fa rinascere «le folate di splendore, eroismo, giovinezza e magnificenza della vita e la morte, e, tra grandi ruggiti di gioia sovraumana, porta la quinta sinfonia alla sua conclusione.» Non per niente si chiama la sinfonia del destino, Schicksals-Sinfonie. Che era anche il destino di Beethoven, quello di divenire sordo mentre la componeva, creando una musica i cui «raggi luminosi sparano nella notte profonda di questa regione, e ci rendiamo conto delle gigantesche ombre che ondeggiano avanti e indietro, avvicinandosi…» come scrisse E.T.A. Hoffmann sull’Allegemeine musikalische Zeitung dopo averla ascoltata per la prima volta.

Ammirando quindi il racconto epico di ciò che è l’Occidente, in quella serata memorabile al Teatro Olimpico di Vicenza, pensavo, in giustapposizione alla musica indiana, ai concerti di carnatica nel prestigioso festival di dicembre a Madras, ora nota come Chennai, alla dhrupad indostana dei fratelli Gundecha di Bhopal, amici ascoltati sia in India che a Sydney, in Australia, ad Amsterdam o in un concerto privato a Bassano del Grappa, e consideravo quanto queste interpretazioni siano legate all’improvvisazione, come il jazz o il blues, e al momento del giorno in cui vengono eseguite (i raga sono mattutini o notturni). 

La musica indiana e il canto di un raga, il cui ricordo si sovrapponeva come in una bizzarra sperimentazione fusion all’ascolto di Schumann eseguito alla perfezione, mi sembravano più ispirati all’idealizzazione di un lamento o di un grido di gioia, d’amore o di spontanea devozione per il divino: non rappresentano necessariamente un’emozione, ma usano quel lamento naturale per portare l’ascoltatore su un piano immediatamente astratto e mistico.

L’unica narrazione, anche se sarebbe più corretto parlare di direzione, è quella di un’unione con il Tutto. Lo condensa una lezione del toccante The Disciple, lungometraggio del giovane talento indiano Chaitanya Tamhane, in cui un’insegnante di raga spiega che «c’è un motivo per cui la musica classica indiana è considerata una ricerca eterna. Tramite il raga, scopriamo la strada verso il divino.» 

In un certo senso, la musica classica indiana nasce in modo più naturale, tramite la voce-lamento, ma approda rapidamente a un’astrazione spirituale. La musica indiana appare più legata al corpo umano e ai suoi impulsi, per approdare a un’elevazione ultraterrena. La “nostra” classica sembra invece nascere in modo più astratto, meccanico appunto, come acme di creatività che s’innalza sulla natura umana, rappresentazione sonora di un’idea che si trasforma però in emozione, esaltazione, ribollir di sentimenti, orgia di Sturm und Drang. E ciò accade forse proprio perché la musica classica occidentale si esprime come un ingranaggio astratto che addomestica il corpo agli ordini delle note scritte, melodie e armonie codificate dal software dello spartito dal quale è proibito discostarsi: è quindi più chiaramente matematica, meno impulso sensuale, una colonna sonora della razionalità. È troppo controllata.

Sull’eccessivo controllo della musica occidentale ragiona con maestria lo scrittore e musicista indiano Amit Chaudhuri nel suo illuminante Finding the raga: an improvisation on Indian music (Faber & Faber) ricordando come alcuni indiani reagivano al primo ascolto della musica classica. Sua madre, scrive Chaudhuri, udendo per la prima volta musica classica a Londra negli anni Cinquanta provò solo profonda tristezza. E il poeta Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel suo memoriale Jiban Smriti (I miei ricordi) racconta di due anni passati a Londra, tra il 1878 e il 1880 in cui la voce di una soprano gli ricordava quella di un cavallo che nitrisce, mentre il piano gli sembrò uno strumento inferiore perché non in grado di eseguire il glissando, cosa che riesce al violino che è quindi migliore, poiché più duttile alla personalizzazione del suono. Era una critica intrisa di rabbia anticoloniale, ma rifletteva una reazione spontanea alla “meccanicità” della musica classica che a noi riesce difficile percepire poiché ci siamo cresciuti dentro.

È proprio questa natura apertamente rappresentativa della musica classica occidentale a far sì, spiega Chaudhuri, che sia perfetta per il cinema e, successivamente, per l’avvilente abuso nei cartoni animati e nelle pubblicità che hanno trasformato i suoni sublimi di Beethoven, Mozart e Vivaldi nel kitsch, tramite la riproduzione eccessiva e fuori contesto di composizioni altissime, sprofondate oggi nei bassifondi rappresentativi. Suono e narrativa. Felicità e tristezza abilmente riprodotte con una musica che racchiude il trauma della modernità per la mente occidentale, persa nell’indagine della crisi della civiltà e del sé. 

Lo ammetteva anche il grande regista bengalese Satyajit Ray (famoso per la Trilogia di Apu) lamentando «l’assenza di una tradizione di narrativa drammatica nella musica indiana» ed elaborare poi che «le sinfonie di Beethoven parlano di fratellanza universale, la lotta dell’uomo contro il fato o le effusioni passionali di un’anima in pena. La sonata con i suoi soggetti maschili e femminili e il loro progredire intrecciato tramite drammatici cambiamenti chiave arrivano a un culmine… ma un raga è un raga.»

Ray si riferiva a un’inafferrabile alterità della musica indiana, un intrinseco e quasi indicibile misticismo immediato, fin dalle prime note, che indaga nella spiritualità, troppo spesso confusa, anche da generazioni di indiani occidentalizzati, con la religione. Per capire questa profondità bisogna rileggere Tagore che, in una lettera del 1894, racconta di una notte, su una casa galleggiante navigando sul fiume Shilaidaha, passata ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il silenzio dell’oscurità. In questa epistola, il poeta bengalese incapsula la dicotomia che mi si è rivelata, di ritorno dall’India, ascoltando la maestria di Sir András Schiff al Teatro Olimpico di Vicenza. 

Tagore riflette sulla ricerca di armonia della musica classica occidentale che vede come una musica diurna, contrapposta al mondo notturno della musica indiana: tenera, seria, pura rāginī, la melodia del raga. Entrambe ci smuovono, eppure sono opposte. Come l’idea della conquista del Paradiso tramite le buone azioni è contrapposta alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il circolo delle reincarnazioni e del gioco tra desiderio e sofferenza. «La nostra è una canzone di solitudine personale, quella dell’Europa canta invece l’accompagnamento sociale. La nostra musica porta l’ascoltatore fuori dai limiti delle vicissitudini quotidiane dell’umanità in quella terra solitaria della rinuncia che è alla radice dell’intero universo, mentre la musica europea danza in diversi modi attorno all’eterno saliscendi delle gioie e dei dolori dell’uomo.»

pubblicato su The Italian Review nel luglio del 2022

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L’intelligenza del bisogno: storie di indiani che conquistano i vertici globali

In questi ultimi dieci anni è difficile non essersi accorti della crescente presenza di persone di origine indiana ai vertici in diversi settori del mondo economico, culturale e scientifico nel mondo occidentale. Qual è la formula che fa sì che molte delle poltrone più alte, dei premi più prestigiosi e dei riconoscimenti più ambiti vengano conquistati da chi è nato in India?

Prima di tutto chiariamo che questa domanda non riguarda chi è nato in Occidente da genitori emigrati, come la vicepresidente americana Kamala Harris o il nuovo Surgeon General (una sorta di Ministro della Sanità operativo) nominato dal neo-presidente americano Joe Biden, il viceammiraglio Vivek Murthy.

Entrambi sono cittadini americani nati in America che hanno forse subito un influsso culturale indiano da parte di uno o due genitori o nonni di origini indiane, ma il cui carattere è stato coltivato nell’influsso della cultura anglo-americana, nelle scuole, licei e università. Sono cresciuti in un ambito che non è certo il “melting pot”, quel fittizio “minestrone” culturale che avrebbe dovuto miscelare tutte le culture degli immigrati, come si sosteneva in America il secolo scorso, ma piuttosto si sono formati entro i margini ristetti di un rigido “stampino per biscotti” che ritaglia fuori dall’ascesa sociale chiunque non adotti la cultura anglo-americana.

Se ti anglo-americanizzi, ce la fai, altrimenti resti fuori. Poco è rimasto della mentalità indiana nella vicepresidente Harris o nel viceammiraglio Murthy, come in tanti asiatici di seconda o terza generazione in America. Il richiamo alle origini, per queste persone, è fatto di gesti simbolici, folkloristici e culinari, che servono a raggrumare consensi nelle comunità degli emigrati.

Diverso forse il discorso del ruolo degli indiani in realtà non anglo-americane, ma per quanto riguarda Regno Unito e Stati Uniti l’anglo-americanizzazione è d’obbligo. O per nascita, come nei due casi, o per adattamento, come vedremo. È questo elemento, questa capacità di anglo-americanizzarsi, ciò che apre la strada ai posti di potere nelle multinazionali della globalizzazione.

Non ci occuperemo, qui, nemmeno dei Bollygarchi, gli oligarchi in stile Bollywood, i magnati indiani nati e rimasti in India, che costruiscono fortune da generazioni, come i Tata o gli Ambani, e nemmeno dei “Bad Boy Billionairs,” titolo di un documentario su miliardari che si sono costruiti fragili imperi dal nulla, come il guru degli schemi piramidali Saharashri; oVijay Mallya della Kingfisher Airlines, che invitava Enrique Iglesias a cantare al suo compleanno; oppure il gioielliere delle dive Nirav Modi; o il re dei computer Ramalinga Raju, i quali vedono poi crollare le loro cattedrali, dovendo spesso fuggire dall’India.

Qui ci occupiamo invece di quegli indiani nati in India, ma che hanno trovato un successo internazionale una volta emigrati all’estero. Secondo Fortune 500 addirittura il 30 per cento dei Ceo delle multinazionali sono di origini indiane. Sono tante le domande che spuntano studiando questa dinamica. Una, ad esempio, è questa: con così tante menti eccelse che trovano spazio nelle multinazionali, nelle università e nel mondo accademico e culturale, come mai, di pari passo con la crescita economica, in India non si è ancora riusciti a creare università come Harvard, Stanford, Oxford o la Columbia, oppure società come Google, Apple o Microsoft? Mentre cinesi e giapponesi sono gelosi della capacità di penetrazione degli indiani nelle multinazionali americane, non invidiano all’India l’incapacità, finora, di fare vera concorrenza con un telefonino, un computer o un’auto da esportazione made in India.

Per dipingere dei visi sull’argomento, facciamo qualche nome eccelso di indiani contemporanei nati in India che si sono meritati il successo nel mondo della cultura e della conoscenza: il notissimo Salman Rushdie e Arundhati Roy, romanzieri che hanno scritto libri resistenti al tempo; la regista Mira Nair; il premio Nobel per l’economia Amartya Sen; o intellettuali come Pankaj Mishra e Homi K. Bhabha. Ce ne sono molti altri, chiaramente. Ma se ci addentriamo invece nella selva degli amministratori delegati delle multinazionali che fanno girare il mondo, la percentuale di nomi indiani è davvero impressionante.

Ecco il catalogo di alcuni Chief Executive Officers indiani: Google, Sundar Pichai; Microsoft, Satya Narayana Nadella; Novartis, Vasant Narasimhan; Pepsi, Indra Nooyi; Mastercard, Ajaypal Sing Banga; Nokia, Rajeev Suri; Motorola, Sanjay Kumar Jha; Harman, Dinesh Paliwal; Adobe, Shantanu Narayen; Deloitte, Punit Renjen; Diageo, Ivan Manuel Menezes. L’elenco continua, ma per concisione ci fermiamo qui. La spiegazione del fenomeno non va ricercata in nessuna teoria sull’eccezionalismo indiano, su una presunta superiorità culturale nella formazione delle menti o addirittura nel Dna, o, come sostiene qualcuno, addirittura nella dieta a base di ural dal, lenticchie fermentate, degli indiani da esportazione.

Ci sono però una serie di fattori che portano a credere che esista una “via indiana” al successo globale. Il primo, più importante ed evidente, è la formazione scolastica. A partire dal 1847, la East India Company istituì quattro facoltà di ingegneria nel sub-continente con l’intento di fornire ingegneri civili per i lavori pubblici sotto la guida di docenti dell’esercito reale.

Questo connubio tra civili e militari è continuato per tutto il diciannovesimo secolo e oltre, fino all’istituzione, nel 1947, del Dipartimento dei Lavori Pubblici indiani che, pur trattandosi di un’organizzazione civile, si affidava ancora a ingegneri militari. Questo è un dettaglio importante per capire il tenore e l’ambiente dell’insegnamento di queste materie negli Istituti scientifici e tecnici indiani fino ai giorni nostri, e cioè la matrice militare: ovvero, severità e rigore al servizio di scienza e tecnica. E viceversa.

Di pari passo, filantropi come Jamshetji Tata finanziavano l’Istituto Indiano della Scienza già dal 1909, così negli anni Trenta esistevano già 10 istituti che offrivano corsi di ingegneria. Con la Seconda Guerra mondiale, nel 1939 ebbe inizio il “Regime di addestramento di tecnici di guerra”, ponendo le fondamenta della moderna educazione tecnico-scientifica in India.

Capire questo forse tedioso background storico è importante per comprendere lo spirito e l’orgoglio nazionale nei confronti della formazione tecnico-scientifica in India, nazione dove, fin da piccoli, la maggior parte degli indiani si sentono ripetere che gli unici studi degni di tale nome sono gli S.T.E.M., cioè Scienza, Tecnologia, Ingegneria (Engineering in inglese) e Matematica. Umanismo, forget it!

Le cattedrali di questa religione laica, cioè il credo nella superiorità della scienza e della tecnica su tutte le altre facoltà, sono i 23 istituti di tecnologia sparsi in tutto il paese. Qui è dove milioni di indiani sognano che i propri figli possano laurearsi per ottenere la chiave verso l’emancipazione dalla povertà o da una classe sociale dalla quale si vuole elevarsi. Fu la Legge degli Istituti di Tecnologia del 1961 a dichiararli in pompa magna “Istituti di Importanza Nazionale,” delineandone poteri, doveri e infrastrutture governative. Ogni “I.I.T.”, come vengono chiamati più comunemente (Indian Institutes of Technology) è autonomo, ma legato agli altri tramite un Consiglio che li amministra e che risponde ovviamente al ministro dell’Istruzione.

Uno dei più importanti tra questi è quello di Chennai, nei cui prati brucano liberi e intonsi molti cervi maculati, nel cuore di un’area metropolitana di otto milioni di abitanti. Il rettore dell’ITT Madras,  Bhaskar Ramamurthi spiega che questi istituti nacquero negli anni cinquanta sul modello del Massachusetts Institute of Technology di Boston e su quello di Cambridge, con standard molto alti e con professori laureati in quegli atenei americani e inglesi. “Ancora prima di aver completato gli studi, i nostri laureandi vengono già reclutati da Google, Facebook e dalle grandi banche internazionali.

La facoltà più competitiva e popolare? Informatica.” Generazioni sempre più numerose di ingegneri e matematici vanno quindi formandosi fin dagli anni cinquanta, ed è in questi istituti o università simili che hanno iniziato a studiare, o sotto questo influsso, nei licei, gran parte degli amministratori indiani ora alla conquista del mondo delle multinazionali.

La scienza viene vissuta quasi come credo religioso, quindi, e proprio in quella che Giorgio Manganelli chiamava la “casa madre dell’Assoluto,” ovvero il quartier generale della Spiritualità. A sentire i revisionisti storici, fu in India che si sviluppò l’atomismo nel sesto secolo prima di cristo. Già dal nono secolo d.C. gli indiani usavano lo zero, ben prima che in Medio Oriente. E c’è chi sostiene che è grazie alla natura metafisica della filosofia vedica e induista, in confronto a quelle giudaico-cristiane, che è stato possibile immaginare il nulla, ovvero lo zero, proprio in India.

Anche le funzioni trigonometriche del sine e del cosine furono utilizzate dagli indiani fin dal quinto secolo d.C., così come il sistema decimale si sviluppò qui nel nono secolo d.C. Dire che il “saper far di conto” gli indiani “ce l’hanno nel sangue” sarebbe non solo sciocco, e ovviamente anche una dichiarazione razzista, ma si può dire che da sempre, tra alti e bassi della storia indiana, tra imperialismi musulmani, buddisti, induisti e britannici, una costante scientifica c’è sempre stata.

È in questo humus che germoglia la cultura dei boss indiani della finanza e dell’economia. Ma è anche un contesto che notoriamente soffoca gli impulsi creativi, perché spinge gli studenti ad accumulare nozionismi su nozionismi senza accompagnarli verso una mentalità capace di trovare soluzioni alternative, trovare un collegamento nei punti sul foglio uscendo dagli invisibili schemi mentali costruiti con troppa mentalità ingegneristica.

Questo è il punto debole della formazione strettamente tecnico-scientifica. Ma questo limite si dissolve quando il soggetto emigra e si trova in un contesto industriale, come quello occidentale, dove la creatività è un bene primario, perché trovare soluzioni innovative è fonte di lucro.

È nelle grandi università della Ivy League americana o di Oxbridge (Oxford-Cambridge) che si impara a sfoderare le proprie idee, le proprie opinioni e il contesto dove si apprende a osare, rischiare e pensare “oltre”. Ecco allora una prima miscela potente nella “pozione magica” dei supermanager indiani. Fondamenta scientifiche solidissime in India e libertà di esprimere la propria creatività nel nuovo contesto occidentale.

Subentrano però altri elementi importanti. Il più evidente, e che fornisce una carta ancora imbattibile in confronto ai colleghi nati in Cina o in Giappone, è l’inglese. In molti licei in India, soprattutto nelle grandi metropoli, l’inglese è lingua primaria, oggi sempre più affiancata dall’hindi, grazie alle mire nazionaliste del partito fondamentalista indù al governo che spera di fare dell’hindi la lingua nazionale, battaglia molti difficile negli Stati del Sud legati fortemente alle loro lingue locali, come il Malayalam in Kerala, il Kannada nel Karnataka e l’antichissimo Tamil nel Tamil Nadu. Ma il fatto che il retaggio linguistico degli imperialisti britannici abbia lasciato un regalo utile nel mondo della globalizzazione non sfugge a nessuno. Non solo negli affollati call center di Bangalore, ora indeboliti dalla concorrenza delle Filippine, ma in generale in ogni ambito professionale. Avere l’inglese se non come lingua madre come lingua molto presente nella cultura indiana ha aiutato moltissimo nell’integrazione immediata degli indiani nei contesti anglo-americani.

Qui bisogna fare un importante distinguo all’interno della cultura anglo-americana. Fino agli anni Settanta, per un ambizioso manager o imprenditore indiano di famiglia facoltosa era importantissimo accedere ai prestigiosi atenei inglesi, ma dagli anni Ottanta in poi sempre più studenti nati in India si sono rivolti all’America, che aveva le porte più aperte e che stava imponendo in maniera sempre più pervasiva il proprio modello culturale nel mondo. Invece di guardare verso Londra, gli indiani hanno iniziato a mandare i figli in carriera nelle grandi università della California e della East Coast, da Berkley e Stanford fino all’MIT e a Harvard. Che sia parte del manifesto delineato da Walter Rostov per la modernizzazione, ma in realtà americanizzazione del mondo non-occidentale è possibile.

Di certo l’importanza strategica di studiare in America era nutrita dalla tendenza a credere che il mondo non ha altra opzione oltre a quella di convergere su quello che veniva sbandierato come un modello economico e politico superiore guidato dalle nazioni anglofone, gli Usa e il Regno Unito. Come disse Thomas Friedman senza peli sulla lingua “Voglio che tutti diventino americani.” E in un certo senso così è stato.

Cosa è successo? Come mai il modello di resistenza postcoloniale socialista e non-allineato indiano si è slabbrato, andando lentamente sfarinandosi e lasciando crescere sul terreno un filoamericanismo sfrenato il cui obiettivo principale era di riuscire ad entrare in quella potente rete di università Ivy League, think tanks, fondazioni, festival, riviste influenti, e multinazionali potentissime? Come nel resto del mondo, l’indebolimento, prima, e il crollo, poi, del blocco sovietico coadiuvato dall’impoverimento economico indiano ha spinto verso quella speranza a stelle e strisce, soddisfatta in una prima fase dalla crescita della classe media nella fase “New India” nei primi anni di questo nuovo secolo.

Qui subentrano anche gli stipendi. Ed ecco spiegato perché il fatto che il 30 per cento dei Ceo delle multinazionali siano indiani in realtà è un dato che si ritorce contro l’India contemporanea. Come mai, nonostante tutte queste competenze, tante conoscenze e illustri talenti non beneficiano l’India? Cinesi e giapponesi pagano stipendi ai loro alti dirigenti che sono paragonabili a quelli americani. Quelli indiani, in rupie, sono la metà di quelli cinesi e americani. Quindi studiare in America apre le porte a stipendi seri, non come quelli che un alto dirigente può aspettarsi in India.

Oltre all’americanismo che ha spinto i giovani più promettenti a studiare in America e a trovare tramite gli atenei un inserimento nella realtà “corporate,” spuntano anche elementi culturali, legati alla realtà contemporanea dell’India. Si nota infatti che una delle qualità che accomuna gli amministratori delegati indiani delle grandi multinazionali, contrariamente ai loro colleghi occidentali, è la straordinaria perseveranza e pazienza.

Satya Nadella è rimasto fedelmente per venti anni a Microsoft prima di diventarne Chief Executive Office. Sundar Pichai lavora a Google dal 2004. Indra Nooyi è alla Pepsi addirittura dal 1994. Jain, Menezes, Narayan sono rimasti  almeno dieci anni nelle stesse società, prima di arrivare alla barra di comando. Invece di accettare una delle molteplici offerte che pagavano di più, di lasciarsi sedurre da un concorrente con stock options, stipendi e bonus sempre più alti, gli indiani sono rimasti fedeli alla “famiglia”, altro concetto importante nella mentalità del leader imprenditoriale indiano. Quindi si parla di fedeltà, basata sulla perseveranza, che viene premiata.

Per conquistare questo livello di perseveranza ci vuole visionarietà, la capacità di vedere le cose come saranno tra dieci o vent’anni. Non solo la fantasia, la creatività, ma anche la focalizzazione sulle strategie a lungo termine. Uno strumento utile per pianificare la propria carriera, ma anche per pianificare la crescita di un’azienda, evidentemente. La capacità di sognare, di credere nell’impossibile, rimuovendo uno alla volta gli ostacoli creati dall’improbabile.

Per avere perseveranza ci vuole pazienza. E la pazienza è una lezione che chiunque passi qualche anno in India, immaginiamoci poi i primi anni formativi, è costretto a imparare. Inutile negare che vivere in India presenta molte difficoltà. Una scuola perfetta per nutrire perseveranza e pazienza. Il sistema è talmente complesso e competitivo, a causa dell’affollamento demografico, ma anche della cultura di dilagante corruttela e familismo amorale, nepotismo e favoritismi, che senza una sacra pazienza non ci si può far strada. Fin da ragazzi, fin dalle medie e dall’età del liceo. Sembra controintuitivo, perché occasioni per irritarsi ce ne possono essere a ogni angolo. Ed è questo il punto, sono talmente tante che se si perde il controllo non si riesce ad esistere in maniera funzionale. Qui perdere le staffe è controproducente. Se lo può permettere episodicamente forse solo un occidentale sprovveduto o un ricco sfondato. Ma per chi sta cercando di scalare la lunga ascesa di una vita di affari, paga essere pazienti e tolleranti. Altre grande qualità necessaria a un leader d’impresa contemporaneo.

Un’altra caratteristica che si riconosce ai leader indiani è l’umiltà nel lavoro. Nonostante la cultura di provenienza sia pervasa da un sistema di caste perfettamente riprodotto nelle comunità di immigrati in Occidente, con le precise divisioni ben rispettate, una volta integrati nel contesto di un’azienda straniera subentra invece l’umiltà dell’amministratore indiano di sapersi rimboccare le maniche e mettersi a lavorare accanto ai dipendenti. All’americana, appunto. L’umiltà nel lavoro apre le porte alla meritocrazia, che fatica a crescere in India, ma che, nel contesto americano, viene da incoraggiata. Umiltà tra capi e sottoposti e meritocrazia sono fenomeni che accadono più raramente in India, dove il rispetto dei ruoli esige che ognuno esegua il proprio compito e nessuno si sporchi le mani in ciò che non è il suo “dharma,” il suo dovere voluto dal fato. E dove impera un nepotismo simile a quello italiano. Ma è qui che l’adattabilità della cultura dell’emigrante indiano entra in gioco. La capacità di comprendere rapidamente il contesto americano e di adattarvisi, di rientrare rapidamente nello “stampino per biscotti” culturale. Si mantengono quindi le utili qualità della provenienza, adottando invece le tendenze e attitudini più utili nel contesto della cultura “ospite”.

Per arrivare a ciò, è necessaria una bella dose di flessibilità, altra qualità che accomuna i leader d’impresa indiani. La capacità di accettare il cambiamento e l’incertezza, altra caratteristica indispensabile per sopravvivere in India. Ma di pari passo alla flessibilità e all’umiltà si arriva anche a un’idea del luogo di lavoro come una famiglia. Questa è naturalmente una tecnica manipolatoria usata da tantissime aziende, quella di creare un senso di appartenenza familiare patriarcale o matriarcale in cui tutti sono protetti e lavorano in gran sintonia. Spesso è solo uno strumento per incrementare la produttività a scapito dei compensi, ma nel caso di molti amministratori delegati indiani si tratta di concepire il proprio lavoro come la propria famiglia, senza divisioni nette. Quindi fare le feste con i colleghi viene normale e spontaneo, i colleghi sono la famiglia, soprattutto se sono dei sottoposti.

E c’è poi il famoso senso del tempo indiano. Si dice che in India si comprende come la gente possa percepire lo scorrere del tempo come un fenomeno circolare e non lineare. Il tempo è d’oro, ma anche infinito. E in India si è costretti, sempre per il contesto non sempre fluido dell’efficienza industriale, a capire che il tempo non funziona in maniera dicotomica: tempo di lavorare e tempo di vivere.

È così che in Occidente si suddivide spesso la percezione dello scorrere delle giornate. Una sequenza di eventi che scorrono. In India, il senso di passato, presente e futuro che agiscono in correlazione è più evidente. Che sia per il palpabile senso delle tradizioni, che in luoghi come Chennai si osserva nel modo in cui si vestono ancora gran parte dei cittadini, con sari per le donne e lungi (pronunciato lunghi, sottane di cotone per uomini), con le file di devoti di fronte ai templi per offrire noci di cocco e fiori alle divinità o perché nulla sembra accadere in orario, tant’è che questa lezione la si impara.

Lo stesso Nadella di Microsoft lo ha riassunto, parlando all’Australian Financial Review descrivendo il suo concetto di equilibrio: “Ciò che cerco di fare nel mio lavoro e di armonizzare ciò a cui tengo profondamente, i miei interessi più profondi, con il mio lavoro. Per me il mio lavoro a Microsoft è una piattaforma che mi consente di coltivare le mie passioni. E ciò mi dà molto senso della vita. E questo, per me, è la forma più alta di relax.” Altro che giocare a golf.

Quale carburante nutre questo genere di personalità? Il bisogno, la necessità e spesso la vera e propria povertà. E quindi il sogno del riscatto, proprio come, in chiave globale, avvenne in Italia nel secondo dopoguerra dove le colonne della rinascita della Milano produttiva erano in maggioranza uomini del sud, guidati dai banchieri Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia. Così, i poveri ragazzi delle metropoli più misere, quelli del Sud Globale, quelli che hanno fatto fatica, sono arrivati con tanta fame di lavoro e di successo nella capitale del potere mondiale. E hanno preso d’assalto il castello. Vincendo. L’intelligenza che nasce dal bisogno.

Lo riassume bene, confermano molti punti di questa lunga analisi sul successo degli indiani nel mondo occidentale, un commento di Sundar Pichai (nato nel 1972) in un’intervista alla Cnn, in cui descrive quell’India in ritardo sul progresso dove sono cresciuti gran parte dei suoi coetanei, di cui si è parlato qui. Nell’ultima frase, rivela, infine, un’ulteriore arma segreta di molti indiani “da esportazione” di successo: “Non pensavo assolutamente che sarei diventato amministratore delegato di Google. Ero troppo occupato a costruire prodotti, che è quello che mi piace fare. Fare prodotti. Sono cresciuto a Chennai quando non c’erano ancora computer, televisioni o Internet.

Il tempo si passava con gli amici, facendo sport o leggendo. Se volevi una linea telefonica, potevi aspettare anche fino a cinque anni, prima che te l’istallassero. C’era solo un telefono per ogni strada. Così l’intera comunità faceva la fila per poter chiamare i parenti da quell’unico telefono. Ho visto il mio primo computer a scuola. Eravamo poveri. Quando arrivava la siccità, i camion dell’acqua ci portavano una decina di litri d’acqua a famiglia. Mia madre si è sacrificata e ha lasciato le scuole superiori per far studiare i maschi della famiglia. Ma ha sempre dato un valore importante all’educazione e alla lettura. Sapeva che la conoscenza e la curiosità erano uno dei valori più importanti della vita. E devo anche a lei il fatto di essere arrivato qui.”

Pubblicato so “Che Fare” 16 dicembre 2020

“Un affresco coloratissimo dell’India contemporanea” Daria Bignardi a Radio Capital su “La Tigre e il Drone”

IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

LA MUSICA INDIANA E LA CLASSICA OCCIDENTALE Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo…

L’intelligenza del bisogno: storie di indiani che conquistano i vertici globali

In questi ultimi dieci anni è difficile non essersi accorti della crescente presenza di persone di origine indiana ai vertici in diversi settori del mondo economico, culturale e scientifico nel mondo occidentale. Qual è la formula che fa sì che molte delle poltrone più alte, dei premi più prestigiosi e dei riconoscimenti più ambiti vengano…

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Come home to the Coromandel (author profile)

Journalist-writer Carlo Pizzati on his memoir Mappillai — An Italian son-in-law in India , his work around the globe and how he came to love and live in a fishing village south of Chennai

10MPCarlo-PizzG4L4Q7EP03jpgjpg.jpgWhen we meet at the house with the green gate, Carlo Pizzati, 52, has just arrived from a refreshing walk at Kalakshetra, showered both by rain and tree jasmine. He sportingly decides to don a blazer for the photographer despite the sweat maps it leaves on him. Ten years ago, on his first visit to Chennai, Carlo almost decided he couldn’t allow himself to fall in love with the woman he had just set eyes on because he found the humidity sapping. Four years after he married poet-journalist-dancer Tishani Doshi he seems to have found his pace with the city’s weather and its people. Home is Arlanymôr (Welsh for ‘beside the sea)’, a salmon-pink villa with teal windows and a blue gate, at the fishing village of Paramankeni, over 90 kilometres south of the city.

Their life here — distributed among toads croaking behind the ancient family porcelain that has survived the voyage from Italy to India (“a piece of the Old Continent brought to the even Older Continent”); snakes that charm their way to the kitchen coffee station; a dog named after a character from Jungle Book ; a mouse that has survived several spins in the washing machine; navigating the red tapeism of Indian bureaucracy; locals who call him mapillai (son-in-law) when they see him walk the beach in his lungi ; and slaving away at writing desks despite the siren call of the sea — forms much of the lyrical, stream-of-consciousness narrative of Carlo’s memoir Mappillai – An Italian son-in-law in India (Simon & Schuster India).

“The book was a decade in the making, and took a year-and-a-half to write,” says Carlo. “There is a lot of race identity in it, about the India I first encountered and the India I see now. It is the journey of 10 years of a white European in this country who becomes a local without having to go native.”

Although Mapillai has some threads in common with Carlo’s previous bookEdge of An Era that explores geopolitics from the perspective of an European who grew up in the shadow of the Berlin Wall, it is more a sequel to “my other book, Technoshamans , a journal of a journey around the world that ended in India”, and introduced him to Indian spiritualism and Ashtanga yoga.

Let’s go exploring

At the age of 16, Carlo left his hometown north of Venice and went to Pensacola, Florida, as an exchange student. “I lived in the US for 11 years supporting myself through American University and Columbia. Those years babysitting boys with snakes, being a pool lifeguard, sports editor of the college newspaper, and doing carpentry were unusual growing-up experiences for someone from a middle-class European family, although it was a rite of passage for most Americans,” says Carlo, his eyes crinkling with laughter.

Adventure is a word that suffers from overuse, but that can be forgiven in relation to Carlo who struck luck when he started working for the Italian national daily la Repubblica corresponding from New York, Central and South America and Europe. It opened doors for him to cover the Northern Ireland strife, drugs in the Andes, civil rights battle in Chile, immigrant smuggling in Mexico, environment in Mururoa atoll and the GMO war in Europe and the US. “Those were the roaring years of enjoying New York but working hard as well. It made my writing eclectic, led me to make a feature film, be a political talk show host and teach at Asian College of Journalism. It’s probably easier to obtain success in one field by focussing, but I’ve been keen on having an interesting life,” he says, adding that some experiences like meeting a 16-year-old guerrilla in the jungles of Colombia taught him empathy. “She was more interesting than presidents who exude more power, although I got arrested on my way back.”

Does Paramankeni allow for this urgent, rock n’ roll journalism? “Stepping away has been a kind of evolution. The adrenaline-seeking personality I had is still there. I recently reported on love commandos in Delhi, following them to their secret hideout. Paramankeni is not retirement but more a writer’s colony that gives me the space for intimate storytelling. We are the sum of the experiences we have had. I don’t want to be stuck with an idea of myself.”

Is the real Carlo then the man who wrote a memoir that is a love song to his lucky wife? “Oh no, I’m the lucky one,” laughs the mapillai .

by Deepa Alexander

portrait photo by R. Ravindran

The book will be launched on October 11, 7 pm at Goethe Institut Auditorium. The author will be in conversation with Tishani Doshi. The event, hosted by Goethe Institut and Prakriti Foundation is open to all. For details, call 28331645.

 

This profile was originally published in The Hindu newspaper Oct. 10th, 2018 at this link.

Carlo Pizzati confronts the challenges of writing an ‘India book’ in his memoir ‘Mappillai’ (Mint Lounge)

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For centuries, travellers from the West have written tomes about India—but no one’s had the last word

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Oh, no,’ my wife says, ‘you are NOT going to write an India book, are you?’

‘No, I’m not, I promise.’

This book will not attempt to explain something that cannot be dissected, as it is ever changing.

There are so many Indias. There’s a tangible, smellable, real India. There’s an imaginary, literary, dreamed India.

Writing about India is like writing about the mafia. It’s like owning a pharmacy. Everyone is bound to always get sick, there’ll always be a need for medicines. A never-ending, lucrative business.

Whether you want to find out about India’s Maximum City, its White Tigers, its Slum-dog Millionaires, its Cities of Joy, or whether India is calling or coming or becoming, whether you want to know about its makers, its prisons or its 50 incarnations or its nine lives, India is there to be told. To be explained and often mansplained.

Not here, not in these pages. Nope. Here you’ll have to read about simple, real, one-sided, totally biased and culturally slanted personal anecdotes and opinions from a recovering Orientalist.

But, think about it, hasn’t this really been the fate of all the people who’ve come for religion or to conquer or for love and have been captivated?…

I guess it all started with the historian Megasthenes, the first foreigner from the West who wrote about India. He left Greece around 300 BC and, after crossing Anatolia and Mesopotamia, finally reached Lahore and then Allahabad. The first whitey or gora, as they’re called in Hindi, to tell his side of the story about India and Indians.

Diodorus, Strabo, Pliny and Adrian all plagiarized from his Indica (not just a type of cannabis, but also the title of Megasthenes’ book). He mixed local legends with personal tales. (…)

This excerpt of my memoir “Mappillai” Simon & Schuster continues at this link in “Mint Lounge”.

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Social media as virtual temple

by Carlo Pizzati

Is the rapidly rising trend of talking to the dead online the millennial way of seeing the Internet as god?

There are at least 30 million dead people on Facebook right now. Every day, 8,000 Facebook members die. By 2060, there could be more deceased people on Facebook than those who are alive. By then, we may be communicating in completely new ways and social networks might exist only as anachronistic testaments of a bygone technological phase — a digital graveyard of a forgotten past.

As we head into this possible future, it’s evident that a growing number of people are already talking to the dead on social media. And the way in which they communicate with the deceased is altering how we relate to the ideas of loss of our loved ones and to the idea of an afterlife. More importantly, this behaviour increasingly identifies the Internet with the notion of what is divine, sacred and holy.

This phenomenon re-emerged distinctly with the recent deaths of writer V.S. Naipaul and singer Aretha Franklin. Hundreds of authors, intellectuals and admirers gushed their grief all over their timelines, invoking the great lessons of the master and the powerful voice of the singer, often addressing the deceased stars in the second person. “You who taught us so much…”, “You who sang so heavenly…”, and so on.

It’s nothing more than an understandable variation of public mourning, one might say. But there are more serious implications in this common behaviour.16SM-P1-CARLOGTR4M2II61jpgjpg.jpg

The necromancers

Talking to the dead must have been a strong need since the early days of humanity. According to psychologist Julian Jaynes, the very first concept of god originated when an ancient tribe began to worship the decaying corpses of a king and queen. The royals were buried in their hut, sitting upright as they decomposed. At some point, someone heard their voices still imparting orders from a great beyond. And began to worship the inanimate bodies as deities.

All religions, to varying degrees, claim different ways of communicating with the afterlife. Orpheus is always descending into some inferno; Lila is always hoping to be reunited with her dead king, as narrated by Vasishta.

This may be motivated by the need to express love, or the attempt to accept loss. To varying degrees of gullibility or believability, through the centuries, clairvoyants, necromancers, channellers, diviners, crystal gazers and mediums with Ouija boards on seances have offered promises of connectivity.

The industrial revolution brought innovative technologies and new methods to supposedly communicate with the alleged souls of the departed. In the post-WWII period, spiritualists across Europe thought they heard “psychophonic” voices of the dead emerging from radio waves.

Today, in our relationship with the inexplicable, we witness a mixture of events on social media. There is the comprehensible attempt to keep the idea of the deceased person alive, reaffirming a spiritual belief in the existence of an afterlife. And the need to reawaken a functioning mourning ritual, lost with modernisation.

However, it is one thing to share admiration for dead artists, scientists and leaders, and another to inadvertently equate the Internet with the sacred enclosure of the temple, the traditional location for our dialogue with the invisible.

The annus horribilis that brought this phenomenon to the foreground is undoubtedly 2016. David Bowie, Prince, Muhammad Ali, Fidel Castro, Umberto Eco, Jayalalithaa, Harper Lee, George Michael, Elie Wiesel, Leonard Cohen, Carrie Fisher, Katherine Dunn, Gene Wilder — these disappearances unleashed waves of comments that allowed people to externalise the public discourse on death. #RIP, which can be interpreted as the classical ‘Rest in Peace’ or the more likely ‘Rest in Pixels’, reached record levels.

The Internet has clearly changed the way we relate to celebrities. It has also changed how we talk about them after they’re gone. In turn, this has affected how we talk about our own dead. People now readily externalise what is called “competitive mourning,” a race of comments like “only the good die young,” “I knew her so well,” and similar banalities.

Elaine Kasket (real name, nomen omen ) is a psychologist at Regent’s University London, currently on sabbatical to finish writing All the Ghosts in the Machine: How the Digital Age is Transforming Death in the 21st Century . She’s been trying to determine if it is healthy to talk to dead people online. “For digital natives born after the mid-80s,” she writes, “to put something on the Internet is to trust it will be received by someone, somewhere in the ether.”

Kasket says that since Facebook is a place many associate with their loved ones, after their departure “it’s natural to reach out to them in the same ‘place’ where you interacted, talked and joked,” when they were alive. The issue, the psychologist points out, is that online, the problem of “legacy hierarchy,” meaning who is entitled to represent the deceased, who can decide how they are remembered, who has “chief mourner status,” becomes a public problem.

Which is also why removing the social network profile of a deceased can be publicly traumatising. Basically, Kasket affirms, keeping a dead person’s profile online is the equivalent of preserving a bedroom, continuing to lay a place at the dinner table for someone who will never show up again. But posting on their Facebook wall has a twist: this was the place where often you had the most interactions with the deceased person, so the expectation of an impossible reply can be higher.

Pixellating death

How does this affect our integration of spirituality within our daily use of technology? We can assume it enhances it. However, there is a fundamental difference between talking to the dead in your own head (or out loud in the silence of your room) and posting your dialogue on a public platform, such as Facebook, Twitter or Instagram.

Virtualising the experience of our loved ones, while they are still alive, and getting accustomed to mistaking their pixellated avatar for our tangible reality, makes us want to hang on more to their Internet version, allowing us to continue experiencing a form of mediated presence.

A compulsive behaviour that has been observed in mourners is that of repeatedly returning to visit the page of a departed loved one. It is equivalent, in a previous technological phase, to calling an answering machine in order to hear the voice of someone who died — initially useful, yet if repeated it might slow down the process of mourning.

There’s also the problem of self-censorship while posting online. As Sherry Turkle, MIT professor and author of Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other , has explained: “We have come to believe that our experiences are not validated unless we have shared them. What we do online tends to make us look good. When we attempt to grieve or commemorate a lost loved one in a public forum, we censor what we want and need to say. We lose certain ways of talking, experiencing things because we don’t practise them.”

For example, we may need to insult, in our own internal dialogue, a friend or relative who died. It might be exactly what’s needed to gain closure and face grief. But most of us would not do that online.

Onscreen temple

If the Internet is being associated with a virtual temple, a sacred place of dialogue with the invisible, what are the implications on atheist and agnostic minds who may be engaging in spiritual behaviour without realising it? Or on believers who are beginning to divert their focus of worship from a real church or temple to a screen? In other words, is the Internet becoming the new temple for many millennials and Generation X web surfers?

If you listen to musician Alexander Bard (again, nomen omen ), the answer would be “yes.” Six years ago, this Internet activist became a spiritual leader by founding a new religion claiming that “the Internet is God”. He called it Syntheism.

The word means “together with god,” to indicate that humanity creates god as opposed to god creating humanity.

Of course, at the moment, Syntheism seems more of an artistic provocation rather than a real religion. Yet, Bard might have a point when he says: “I firmly believe Syntheism is already being practised — we are just formulating it.”

And, of course, Syntheism already has serious competition in the ‘Church of Google’, a website first taken down, but revived as ‘The Reformed Church of Google’ — their belief is that the search engine is the closest thing to god because it is omni-present, omniscient, omni-benevolent, as it professes (officially) no evil.

Artificial nirvana

These trends, some facetious, some more serious, are not alone. Extropians are a group of young scientists, looking at technological promises made by the pioneers of artificial intelligence like Marvin Minsky, or of nanotechnology like K. Eric Drexler, who predict a world where both body and mind will become obsolete, and where a combination of technologies and genetic engineering could lead to our capacity to download our conscience in a web server and reach artificial nirvana in a new post-human world.

It’s a popular trend in Silicon Valley, with its promises of doubling life spans with special diets or deep-freezing bodies with cryogenics. It is, more than science, a new form of utopian religion looking at a trans-human who can control nature and the universe.

Some traditional religions see this as the antichrist, or a Satanic endeavour to end humanity. Optimists see the birth of a connected world-brain through artificial intelligence as the realisation of what philosopher Hegel had predicted about society as a whole.

Computer as god

All traditional symbology is in place to understand why it is possible to experience technological communication in spiritual terms. Biblical Armageddon, or the “Technocalypse,” is envisioned as a sizeable solar flare that could wipe out all the hard drives in the world. The Dark Net is a metaphor of a hell ruled by a concealed, immoral, and murderous underworld. The Heavens could be the download of our conscience in a server, resulting in eternal body-less nirvana.

As with life itself, most people experience electronic networks as entities evolving from a force they do not really understand, and that certainly they cannot control — a self-organised, decentralised and distributed system, which is also how many experience the concept of the divine.

To allow the identification of a faceless abstraction like the Internet with an all-powerful god-like force, there’s also the fact that the traditional monotheistic idea of god in a human form, often that of an older, wise man, has been suffering a slow erosion.

In the West, there has been a crisis of the patriarchal symbology of god in the aftermath of the bloody World Wars of the 20th century which involved (negative) father figures like Hitler, Mussolini or Stalin, along with positive (for some) father figures like Woodrow Wilson or the Kennedys. Of course, the need for an older man with a white beard sitting on the highest throne of the land lives on in a place like India, for example. But the iconography of patriarchy is suffering as the interdependence of humanity with the natural world brings everything on a similar level.

The more we use the Internet, the more we experience existence as an interconnected network of dependencies, leading to a possible weakening for the need of traditional religious symbols.

This could mean a return to an animistic approach, as is the case with some New Age beliefs in which mountains, rivers and oceans, along with plants and animals, are seen not as objects and lives created by god, but as an integral part of a larger interconnected whole, components of a web of creation.

People of the PC

In an era of democracy, the hierarchical structure of some theological liturgies might suffer, as believers feel equally important in the face of the divine, just as they are in the face of Internet. It is not so far-fetched to see that, in our age, a God-like presence could be perceived in the network which connects us more frequently and deeply every day.

For centuries, monotheistic religions have identified themselves with a technological object which transmitted the religious experience far and wide thanks to a machine: the printing press.

Theology does come with technology. So it is not such a leap of faith, pardon the pun, to see that from “the people of the book,” we may soon be seeing the “people of the computer” becoming the strongest religion of the millenium, seeking salvation in the algorithm.

The writer is the author of Technoshamans. Mappillai,a memoir, will be published this month.

(Published in The Hindu Sunday Magazine September 16th,2 2018)